La cancellazione del gasdotto South stream, che avrebbe permesso al gas russo di raggiungere l’Europa attraverso i Balcani evitando l’instabile collo di bottiglia dell’Ucraina, è stata definita da più parti come una sconfitta per Vladimir Putin e una vittoria per l’Unione europea, che ha evitato di aumentare la sua dipendenza energetica da Mosca.
In realtà, scrive la Frankfurter Allgemeine Zeitung, l’Europa ha poco da festeggiare, perché “resta dipendente dai gasdotti ucraini. Se già in passato questo era un fattore di rischio, oggi l’Ucraina è un paese in preda alla guerra civile e con un futuro politico incerto. Per assicurare la stabilità delle forniture l’Europa dovrà investirvi molti più soldi e capitale politico di quanto avesse mai pensato prima della rivolta di Euromaidan”.
Ma c’è un altro aspetto preoccupante in questa vicenda, nota la Tageszeitung: l’avvicinamento tra la Russia e la Turchia. Il 1 dicembre, durante la sua visita ad Ankara, Putin ha annunciato l’intenzione di approfondire la cooperazione tra i due paesi e dirottare i volumi di gas destinati a South stream verso l’hub energetico che dovrebbe nascere al confine tra Grecia e Turchia. In questo modo la Russia comprometterebbe seriamente i tentativi europei di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento attraverso la direttrice sudorientale: cambierebbero i tubi, ma il gas importato continuerebbe a venire in gran parte dai giacimenti russi.
Secondo l’ex diplomatico indiano M.K. Bhadrakumar, Putin ha fatto nuovamente ricorso a uno dei principi del judo: non opporsi all’avversario, ma usare la sua spinta contro di lui. Il gasdotto South stream era da tempo appeso a un filo e le sanzioni occidentali ne avrebbero comunque decretato la fine. Con questa mossa a sorpresa Putin ha limitato i danni, e non solo dal punto di vista energetico.
La Turchia è il punto debole della strategia occidentale contro il gruppo Stato islamico: ha negato l’uso delle sue basi militari alla coalizione, ha fatto di tutto per ostacolare i curdi a Kobane e molti la accusano addirittura di aiutare i jihadisti. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan è sempre meno amato nelle capitali occidentali, e il sentimento è reciproco: la Turchia ha abbandonato i progetti di integrazione europea e sta adottando una retorica sempre più antioccidentale
Offrendo una sponda a Erdoğan, Putin gli permetterebbe di aumentare la profondità strategica della Turchia e il suo spazio di manovra nei confronti di Europa e Stati Uniti. Il 1 dicembre Ankara ha assunto la presidenza a rotazione del G20, e potrebbe approfittarne per favorire la fazione “revisionista” capeggiata dal gruppo dei Brics che contesta l’occidentalismo delle istituzioni internazionali. Per Mosca cementare questo asse sta diventando una questione di vita o di morte: il crollo del rublo sta aggravando drammaticamente i suoi problemi finanziari, e deve affrettarsi a sostituire i canali di finanziamento occidentali bloccati dalle sanzioni.
Certo, nella strana amicizia tra Putin ed Erdoğan c’è un problema non trascurabile: la crisi siriana. Mentre Putin sostiene il governo di Assad, la Turchia è uno dei principali sostenitori dei ribelli e non vuole accettare che il presidente siriano rimanga al potere. Ma per Mosca l’incoerenza non sembra un problema: la sua priorità è rompere i tentativi di isolamento da parte di Europa e Stati Uniti e sfruttare ogni occasione per infliggere rappresaglie asimmetriche.
Ne è un esempio un’altra clamorosa svolta impressa recentemente alla politica estera del Cremlino: il patto di cooperazione militare firmato con il Pakistan, irriducibile avversario di due tradizionali alleati della Russia come India e Iran. Anche in questo caso, Mosca ha ridotto la pressione su un paese che gli Stati Uniti stavano cercando di cooptare nella loro strategia regionale e ha neutralizzato gli sforzi di Washington per cancellarla dall’equazione afgana, garantendo allo stesso tempo sostanziose commesse agli amici oligarchi dell’industria degli armamenti.
Messa con le spalle al muro, la Russia non si fa scrupoli a giocare su più tavoli, anche se questo significa rischiare di perdere qualche amico. Del resto, nell’instabile ordine multipolare che si sta affermando dovremo abituarci ai rapporti complicati e alla diplomazia multivettoriale. Come dimostrano i precari equilibrismi dei negoziati sul nucleare iraniano e la cooperazione con Teheran in Iraq, è un gioco in cui anche l’occidente non ha nulla da imparare.
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