Dove prima c’era la direzione nazionale, in via delle Botteghe Oscure, oggi c’è l’Associazione bancaria italiana. E nelle stanze della sezione della Bolognina, dove Achille Occhetto annunciò la fine del Partito comunista, oggi c’è un negozio di parrucchiere gestito da cinesi.

Sono trascorsi venticinque anni da quel 12 novembre 1989. Senza nessun rimpianto per il passato, e senza neanche mitizzarlo, bisogna riconoscere che con la fine del Partito comunista scomparvero molto più che dei semplici indirizzi in un elenco telefonico: scomparve un luogo importante a cui appartenere. Ma non vennero meno le ragioni della sua esistenza né i diritti da difendere o le classi sociali per cui parteggiare.

Da allora tantissime persone si sono ritrovate orfane, senza più un partito in cui riconoscersi, private improvvisamente di una parte della loro identità. E a distanza di anni per molti “fare politica” si è ridotto a “fare bene le cose”, che comunque non è poco. Oppure a condividere qualche link indignato su Facebook.

In fondo quella del 1989 fu una rottamazione ante litteram: all’epoca il segretario del partito, Occhetto, aveva 53 anni; Massimo D’Alema 40 (l’età di Renzi oggi); Walter Veltroni 34. Ma sarebbe troppo facile prendersela solo con chi c’era. Ebbe una responsabilità anche chi non c’era, chi rinunciò a dire la sua e rimase alla finestra. E se questo valeva ieri, certamente vale pure oggi.

Questo articolo è stato pubblicato il 7 novembre 2014 a pagina 7 di Internazionale, con il titolo “Parteggiare”. Compra questo numero | Abbonati

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it