Stefano Bartezzaghi, Non se ne può più. Il libro dei tormentoni
Mondadori, 257 pagine, 17 euro
Prima che intorno agli anni settanta l’aggettivo “coatto” diventasse un tormentone per indicare un giovane povero e violento abitante nelle periferie romane, questa parola aveva un senso tecnico in psicologia, dove significava qualcosa di irriflesso, un comportamento che una persona mette in atto automaticamente, costretta da un impulso di cui non è del tutto consapevole.
La linguista Caterina Donati mi spiega che tormentoni come “in qualche modo” o “senza se e senza ma” sono frasi coatte: una volta introdotte tendono a diffondersi come virus infestando i discorsi di tutti e contribuendo a indebolire la consapevolezza di ognuno. Con la sua scrittura sempre sorvegliata, Bartezzaghi li raccoglie in questo libro, li spiega, prova a classificarli e alla fine, come al solito, ci gioca.
Si ride, ma soprattutto si riflette sul perché queste piccole unità linguistiche siano così fastidiose. Non è tanto una questione estetica a sconsigliare di dire “trend negativo” o “prove tecniche di governissimo”, ma un problema di etica. Queste espressioni nuocciono perché, essendo già pronte, non sollecitano la nostra capacità di tradurre efficacemente un pensiero in parole, e realizzano solo l’inutile effetto di assecondare un impulso a parlare. “E allora”, conclude Bartezzaghi, “se le armi del tormentone sono la ripetizione e l’ipnosi potremmo provare a stare svegli, e variare”.
Internazionale, numero 875, 3 dicembre 2010
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