Alice Munro, Troppa felicità
Einaudi, 330 pagine, 20 euro
Il Canada ha prodotto scrittrici notevolissime come Margaret Lawrence (la mia preferita), la Atwood, la Michaels. E la Munro, che ha prediletto il racconto al romanzo, e che si ripresenta con una raccolta non meno intensa delle precedenti. Dieci storie di crudeltà e incomunicabilità quotidiane, di passaggi del tempo che mutano le persone e i loro sentimenti, di malattie e delitti, di incroci famigliari e sentimentali affrontati con un’abile scomposizione del quadro da un’età a un’altra, da un personaggio a un altro, da un ambiente a un altro.
Abbondano i cadaveri nell’armadio. Munro è bravissima nella costruzione del racconto e nell’ideazione degli intrighi, e sa come trascinare il lettore in un clima freddamente angosciante, dove l’umanità sembra dare costantemente il peggio o il mediocre, la piena banalità del male di cui siamo intrisi. Il suo limite è quello di una orizzontalità senza scampo, di una misantropia senza rimedio.
Senza un possibile riscatto. Un po’ più avanti saremmo nel grand guignol. Con il racconto del titolo, l’autrice ci sposta all’ottocento e alla biografia di personaggi reali non meno disperanti di quelli attuali. I più impressionanti e notevoli di questi racconti sono quelli in cui si parla di bambini, vittime di genitori pazzoidi o esempi a loro volta del male di cui si è, secondo la Munro, tutti impastati.
Internazionale, numero 923, 11 novembre 2011
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