Gentile bibliopatologo,
il 13 gennaio ho fatto il punto di due anni di letture sotto pandemia. In ventiquattro mesi ho letto 62 romanzi, ovvero una media di 2,5 circa al mese. Rispetto a un tempo non tanto lontano in cui dormivo molto di meno è un numero anche piuttosto modesto. Ma se penso a quanto mi resta di tutte queste letture mi spavento. Mi rammarico di pensare che molti non hanno lasciato tracce. D’altronde rallentare il ritmo significherebbe rinunciare a uno dei più grandi piaceri della vita. Sono bulimica, devo mettermi a dieta?

-M.

Cara M.,
il 13 gennaio, mentre tu facevi i tuoi calcoli bibliometrici, che cosa facevo io? Non ne ho idea, e spero che non sia stato commesso nessun delitto nei miei paraggi, perché se gli inquirenti piombassero a casa mia a chiedermi un alibi a bruciapelo farei scena muta e finirei in manette. E che cosa ho fatto tre giorni fa? Di nuovo, il vuoto. Blackout totale. Eppure sono state ventiquattr’ore fitte di azioni, parole, gesti, pensieri, faccende da sbrigare, il tutto a opera di un protagonista che mi sta ben più a cuore dei personaggi romanzeschi. Ci sono stati anche due o tre pasti, in quel giorno, ma non saprei dirti che cosa ho mangiato. Posso ricostruire che cosa ho mangiato ieri sera, ma già stasera non lo saprò più. E che cosa ricordo dei miei primi anni di vita? Una decina di istantanee, distorte e rimaneggiate lungo i decenni fino al punto in cui, ne sono quasi certo, avranno perso ogni appiglio con la realtà come fu. Dalle prime quarantaquattromila ore della mia vita – perché tante ce ne sono, più o meno, in cinque anni – potrei ricavare forse una mezza paginetta di ricordi. Avvilente, vero? Ma nessun poliziotto scamiciato verrà a chiedermene conto in una stanza fumosa, puntandomi addosso una lampada calda e accecante.

Quando pensiamo alle memorie delle nostre letture abbiamo troppo spesso in mente situazioni-tipo in cui dobbiamo rendere conto di qualcosa – l’interrogatorio di polizia, l’esame universitario, la presentazione davanti a un uditorio, le ripetizioni allo specchio prima delle interrogazioni a scuola. Ne facciamo, insomma, questione di “memoria dichiarativa”, come la chiamano gli studiosi. Che cosa sapremmo riferire, dei libri che abbiamo letto? È una domanda che ha senso per un insegnante, per uno studente, per un critico. Ma per chi, come te, vede nella lettura semplicemente “uno dei più grandi piaceri della vita”, la questione dev’essere posta diversamente, magari sulle note di Charles Trenet: Que reste-t-il de nos amours? Che cosa resta dei nostri amori letterari?

Non ricordo nulla della mia prima infanzia, eppure il bambino che fui ha determinato in larghissima parte l’adulto che sono. Allo stesso modo, non saprei riassumere decentemente la trama dell’Uomo senza qualità di Musil, forse il libro che più ha influenzato la mia sensibilità, la mia mentalità, il mio modo di guardare il mondo. E forse la risposta che cerchi è tutta qui. Che cosa resta dei nostri amori letterari? Restiamo noi, e il modo in cui quelle letture ci hanno trasformato, hanno affinato le nostre percezioni, hanno aperto nuove vie su cui far marciare i nostri pensieri, ci hanno reso più saggi o più umani. Siamo la memoria incarnata delle nostre letture. Tu parli di bulimia e di dieta, e in effetti l’analogia alimentare è illuminante. Siamo il risultato di migliaia di pranzi e cene di cui non ricordiamo nulla. Magari ci piacevano, mentre eravamo a tavola, ma dopo ne abbiamo perso ogni memoria, se non quella che ha dato forma alla nostra struttura fisica.

Nessuno verrà a chiederti che cosa ti ricordi dell’uno o dell’altro romanzo. E se il 13 gennaio c’è stato un delitto nel tuo condominio e la polizia verrà a bussare alla tua porta, hai comunque più chance di me di farla franca: “Agente, io non c’entro, stavo calcolando le mie letture sotto pandemia, ho anche scritto al bibliopatologo”. Sarò felice di essere il tuo alibi.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it.

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