A metà della campagna elettorale il principale programma satirico di Israele, Eretz nehederet (Una terra meravigliosa), ha trasmesso un nuovo sketch sull’uomo che ha dominato la politica del paese negli ultimi vent’anni. Benjamin “Bibi” Netanyahu, diceva il programma, è stato condannato da bambino a essere il primo ministro d’Israele per l’eternità, e l’unico modo che aveva di rompere la maledizione era diventare il peggior leader nella storia del paese.

Se questa era la sua strategia, Netanyahu ha fallito ancora una volta. Nonostante abbia guidato un governo che ha creato pochi posti di lavoro e favorito la stagnazione degli stipendi, nonostante l’aumento esponenziale del costo della vita e una terribile crisi immobiliare (oggi a un israeliano servono in media 148 mesi di stipendio per comprare una casa, quando a un americano medio ne bastano 66), il 17 marzo gli israeliani lo hanno comunque riconfermato.

Solo pochi giorni prima Netanyahu era indietro nei sondaggi, ma una massiccia campagna del terrore scatenata all’ultimo momento gli ha permesso di rimontare. Nel giorno delle elezioni ha addirittura pubblicato un video sul suo profilo Facebook in cui avvertiva: “Il governo della destra è in pericolo. Gli arabi israeliani fanno la fila nei seggi e le organizzazioni di sinistra li trasportano con gli autobus”. E chi pagava per quegli autobus? “Gli statunitensi”, spiegavano i collaboratori di Bibi.

Il sistema elettorale israeliano, fortemente proporzionale, non ha mai concesso a un singolo partito la maggioranza dei 120 seggi della Knesset nei suoi 67 anni di storia. Il Likud guidato da Netanyahu ha ottenuto 30 seggi, mentre il suo rivale di centrosinistra, l’Unione sionista, si è fermato a 24 seggi. Questo risultato concede al Likud la precedenza per formare una coalizione e raggiungere i 61 seggi necessari, e ci sono abbastanza partiti di destra per far quadrare i conti.

Bibi governerà almeno per altri cinque anni, diventando il più longevo primo ministro nella storia di Israele. Ma la sua rimonta avrà un prezzo, e il paese non ha ancora cominciato a pagarlo.

Netanyahu, infatti, ha vinto soprattutto cannibalizzando il voto degli altri partiti alla destra del Likud, ma questa strategia lo ha costretto a dire ad alta voce quello che finora aveva solo insinuato. Il momento più drammatico è arrivato alla vigilia del voto, quando Netanyahu ha detto chiaramente che non permetterà mai la creazione di uno stato palestinese.

“Penso che chiunque voglia creare uno stato palestinese e ritirarsi dai territori occupati da Israele favorirà gli attacchi contro Israele”, ha annunciato il primo ministro. Quando gli hanno chiesto se questo significasse che non avrebbe mai permesso la creazione di uno stato palestinese in caso fosse stato rieletto, Netanyahu ha risposto semplicemente “sì”.

Questa dichiarazione non ha sorpreso nessuno. L’intera carriera politica di Netanyahu è stata dedicata al sabotaggio degli accordi di Oslo del 1993 (che prevedevano la convivenza pacifica di uno stato palestinese accanto a quello ebraico) e all’insediamento di un numero talmente elevato di coloni nei territori occupati da rendere la nascita di uno stato palestinese fisicamente impossibile.

Netanyahu ha sostanzialmente distrutto gli accordi di Oslo durante il suo primo mandato tra il 1996 e il 1999 (la nascita dello stato palestinese era prevista per il 1998). Oggi quasi il 10 per cento degli ebrei israeliani vive nei territori palestinesi occupati (Gerusalemme Est e la Cisgiordania) che avrebbero dovuto formare lo stato palestinese. Tuttavia, per conservare l’appoggio degli Stati Uniti e dell’Europa, il primo ministro non aveva mai detto chiaramente di non voler permettere la nascita di una Palestina indipendente.

Il 16 marzo Netanyahu ha finalmente detto le cose come stanno, perché questo è ciò che volevano sentire i coloni e i loro sostenitori e perché aveva bisogno dei loro voti per sopravvivere politicamente. Ma così facendo ha distrutto il mito, utilissimo negli Stati Uniti e in Europa, secondo cui è in corso una sorta di “processo di pace” che bisogna proteggere mostrandosi comprensivi con gli israeliani. La verità è che il “processo di pace” è morto e sepolto da anni. Sul tavolo non c’è alcuna “soluzione a due stati”.

In futuro sarà più difficile per gli Stati Uniti porre il veto sulle risoluzioni delle Nazioni Unite contro Israele, come hanno già fatto 51 volte dal 1972. Senza la scusa dei processo di pace, il veto di Washington diventa un’approvazione del dominio perpetuo di Israele sui palestinesi. Inoltre sarà accelerata l’erosione delle posizioni filoisraeliane di quelli che in Europa e negli Stati Uniti avevano bisogno di credere che un giorno ci sarebbe stato un accordo.

Netanyahu ha peggiorato le cose durante la campagna elettorale mostrando apertamente il suo disprezzo nei confronti del presidente statunitense Barack Obama. Il suo discorso allarmista davanti al congresso di Washington, in cui ha dipinto la ricerca di un accordo sul nucleare iraniano da parte di Obama come una resa ingenua al desiderio di Teheran di costruire la bomba atomica, ha rappresentato un intervento senza precedenti di un leader straniero nel processo politico degli Stati Uniti. Obama non lo dimenticherà e non lo perdonerà.

La promessa fatta da Netanyahu durante la campagna elettorale di accelerare la colonizzazione dei territori palestinesi (illegale in base al diritto internazionale) è stato un altro chiodo nella bara del processo di pace, ma ha aiutato il primo ministro a farsi rieleggere e a Netanyahu non interessava altro.

Il primo ministro israeliano crede ancora di essere l’unico a comprendere i pericoli che incombono sullo stato ebraico e a essere pronto a fare qualcosa per scongiurarli. Ma la verità è che non fa altro che posticipare questi problemi. Incapace di capire che un accordo è possibile e auspicabile, Netanyahu condanna il suo paese a un conflitto permanente e all’isolamento internazionale.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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