Il bilancio del doppio attentato suicida compiuto il 10 ottobre contro una manifestazione per la pace ad Ankara è salito, secondo il filocurdo Partito democratico dei popoli (Hdp), a 128 vittime. La polizia turca non era presente per garantire la sicurezza (non lo è mai agli eventi dell’“opposizione”), ma è arrivata subito dopo per sparare gas lacrimogeni sui sopravvissuti.
Chi sono i responsabili degli attentati? Il primo ministro Ahmet Davutoğlu ha indicato tre sospetti: il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), dei non meglio precisati “estremisti di sinistra” o il gruppo Stato islamico. Selahattin Demirtaş, leader dell’Hdp – che aveva organizzato la manifestazione di Ankara – ha proposto una quarta alternativa: qualcuno che cerca di fare gli interessi del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) del presidente Recep Tayyip Erdoğan.
Simili atrocità hanno certamente contribuito alla strategia di Erdoğan di creare un clima di paura prima delle elezioni del 1 novembre, con le quali spera di recuperare la maggioranza parlamentare che ha perso nelle elezioni di giugno. Ma è difficile credere che l’Akp abbia degli attentatori suicidi a sua disposizione: è un partito islamico, ma non così estremista.
È altrettanto improbabile che l’attentato sia opera del Pkk, perché gran parte delle persone presenti alla manifestazione erano curdi. Inoltre il Pkk è un’organizzazione laica e non usa attentatori suicidi. L’idea che i responsabili siano degli “estremisti di sinistra” è ridicola: quale potrebbero essere le loro ragioni? Quindi restano solo i jihadisti dello Stato islamico.
Erdoğan è stato piuttosto gentile con il gruppo Stato islamico nei primi anni della guerra civile siriana
Il gruppo usa abitualmente degli attentatori suicidi e sicuramente ce l’ha con Erdoğan. Questi è stato piuttosto gentile con il gruppo Stato islamico nei primi anni della guerra civile siriana, permettendo a migliaia di aspiranti jihadisti di attraversare liberamente la frontiera con la Siria. Erdoğan ha perfino chiuso la frontiera ai curdi che volevano aiutare la difesa di Kobane, una città a maggioranza curda nel nordest della Siria che ha resistito per quattro mesi all’assedio dei jihadisti.
Erdoğan è un musulmano sunnita profondamente religioso che voleva rovesciare il presidente siriano Bashar al Assad, un alawita che controllava un paese a maggioranza sunnita. Non si è curato troppo di chi fossero gli oppositori di Assad, a patto che fossero sunniti. Inoltre, non voleva assistere alla nascita di uno stato curdo appena oltre il confine meridionale della Turchia, quindi preferiva che il gruppo Stato islamico sconfiggesse i curdi siriani.
Ma dopo aver perso le elezioni di giugno le sue priorità sono cambiate. A quel punto era in ballo il suo stesso potere, e per conservarlo aveva bisogno di una crisi. O meglio, di una guerra.
Erdoğan sperava che a giugno l’Akp avrebbe ottenuto non solo la quarta vittoria elettorale consecutiva, ma anche una maggioranza dei due terzi dei seggi. Così l’anno scorso ha lasciato la carica di primo ministro che occupava da dieci anni e si è fatto eleggere presidente. Oggi quello del presidente è un ruolo cerimoniale, ma con una maggioranza dei due terzi avrebbe potuto cambiare la costituzione e dotarsi di poteri assoluti.
Ma il suo partito non ha ottenuto la maggioranza di due terzi alle elezioni di giugno. Anzi non ha ottenuto neanche una maggioranza, bensì solo 258 seggi sui 550. Il principale motivo è stato l’ingresso in parlamento dell’Hdp, il quale chiede che la minoranza curda della Turchia (un quinto della popolazione) goda di pari diritti in tutti i campi, compresa la lingua.
La maggior parte degli elettori dell’Hdp erano curdi, molti dei quali conservatori o religiosi che in passato avevano votato per l’Akp, ma le sue posizioni laiche e progressiste hanno convinto anche molte persone di origine non curda a votarlo. Ha ottenuto solo il 13 per cento dei voti, comunque ampiamente al di sopra dello sbarramento del 10 per cento necessario a ogni partito per essere eletto in parlamento.
Erdoğan aveva bisogno di ricominciare la guerra contro il Pkk, cosa che non sarebbe piaciuta ai suoi alleati statunitensi
L’arrivo dell’Hdp ha cambiato gli equilibri aritmetici in parlamento, privando l’Akp della sua maggioranza. Erdoğan avrebbe potuto optare per una coalizione, ma era prigioniero della sua carica presidenziale senza potere, privato della possibilità di cambiare la costituzione e senza poter fare personalmente parte di un simile governo di coalizione. Per cui ha deciso di scommettere su nuove elezioni.
I voti dei curdi non sarebbero tornati all’Akp, e l’unica altra possibile fonte di voti erano gli ultranazionalisti che si erano allontanati quando erano state avviate trattative di pace con il Pkk. I negoziati erano stati aperti quattro anni fa, anche se il cessate il fuoco ufficiale è stato dichiarato solo nel 2013.
Erdoğan aveva bisogno di ricominciare la guerra contro il Pkk, cosa che non sarebbe piaciuta ai suoi alleati statunitensi. Ha risolto il problema dicendo che avrebbe attaccato lo Stato islamico e altri gruppi “terroristi”, il che gli ha garantito il sostegno di Washington. Ma da quando sono cominciati, ad agosto, gli attacchi aerei della Turchia hanno colpito venti obiettivi del Pkk per ogni attacco contro lo Stato islamico. Non è neppure chiaro se la Turchia abbia davvero chiuso le sue frontiere ai volontari pronti ad aggregarsi al gruppo Stato islamico.
Il Pkk sta rispondendo agli attacchi, ovviamente, ma lo Stato islamico non è contento che la Turchia abbia cominciato a bombardarlo (assai leggermente) per motivi diplomatici. Quasi certamente è responsabile di tutti e tre gli attentati suicidi che hanno colpito la Turchia quest’anno.
C’è una sola consolazione: la strategia elettorale di Erdoğan non sembra funzionare. Un recente sondaggio indica che il 56 per cento dei turchi lo ritiene direttamente responsabile della nuova guerra. Le intenzioni di voto per l’Akp sono in calo, mentre quelle per l’Hdp stanno salendo. Erdoğan va verso la sconfitta, e se la merita proprio.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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