Nonostante questa settimana nel Regno Unito sia prevista, tra enormi proteste, una breve visita di Donald Trump, è ancora tempo di “solo Brexit, sempre Brexit” sull’isola di sua maestà. La lunga battaglia sulla natura dell’accordo che definirà il rapporto del Regno Unito con l’Unione europea dopo l’uscita sembrava aver raggiunto un punto di svolta lo scorso fine settimana.

“Non avevano altro da offrire. Nessun piano b. Li ha respinti”, ha dichiarato un funzionario di governo a proposito dei sostenitori di una Brexit dura dopo che la premier Theresa May era riuscita a far accettare una “Brexit morbida”, durante una riunione di crisi del governo lo scorso febbraio. Ma la tregua tra le due fazioni, una favorevole alla permanenza nell’Ue e l’altra all’uscita, all’interno del litigioso Partito conservatore, è durata meno di 48 ore.

Senza alternative coerenti
L’8 luglio David Davis, falco della Brexit e titolare dell’assurdo incarico di segretario di stato per l’uscita dall’Unione europea, ha rinnegato il suo sostegno di breve durata agli obiettivi fissati da May per il negoziato, e si è dimesso in segno di protesta. Poco dopo l’ha seguito il ministro degli esteri Boris Johnson, sostenendo che il piano di May significava che “il sogno (della Brexit) stava morendo, soffocato da dubbi inutili”.

L’assoluta sconsideratezza del “sogno della Brexit” è esemplificato dallo stesso Johnson, che prima ha paragonato i piani di negoziato di May al tentativo di “lucidare uno stronzo”, poi ha cambiato idea sostenendoli per 36 ore, salvo poi finire per dimettersi, affermando che avrebbero ridotto il Regno Unito a uno “stato vassallo” con lo “statuto di una colonia” dell’Ue. Eppure in nessun momento di questa discussione nessuno dei due ha presentato una controproposta coerente.

La forza dei sostenitori della Brexit sta nell’implicita minaccia di poter organizzare una rivolta in grado di rovesciare May

Ma qual è il motivo di tutto questo clamore? La posizione sul negoziato delineata con grande difficoltà da May due anni dopo il referendum che ha raccolto un 52 per cento di voti a favore di una non meglio definita Brexit, non avrebbe mai potuto essere accettata dall’Unione europea. Il suo unico pregio è stato quello di far sembrare possibile una riconciliazione delle due fazioni del Partito conservatore, i favorevoli all’uscita e i sostenitori della permanenza. Ma l’unità imposta da May è crollata prima della fine del weekend.

Tutte e quattro le principali cariche dello stato – premier, ministro delle finanze, ministro degli esteri e ministro dell’interno– sono oggi in mano a politici conservatori che hanno votato a favore della permanenza in Europa al referendum. Eppure questi non sono in grado di convincere il loro partito ad accettare neanche una “Brexit morbida”, che manterrebbe l’attuale accesso del Regno Unito al suo principale partner commerciale, l’Ue.

Il tempo sta finendo
La forza dei sostenitori della Brexit sta nell’implicita minaccia di poter organizzare una rivolta in grado di rovesciare May, dividere definitivamente il Partito conservatore e portare a elezioni anticipate che favorirebbero il Partito laburista. In realtà potrebbero non avere davvero i numeri per farlo, visto che in molti ritengono che una maggioranza dei parlamentari conservatori preferisca una Brexit molto morbida o addirittura non voglia alcuna Brexit, ma May preferisce non rischiare.

E quindi, terrorizzati dalla prospettiva di un governo laburista guidato da Jeremy Corbyn (che viene regolarmente dipinto dai mezzi d’informazione di destra come un Lenin in attesa di prendere il potere), i conservatori sono destinati ad aggrapparsi disperatamente al potere anche se probabilmente non sarebbero mai in grado di garantire una Brexit soddisfacente. E il tempo sta finendo.

Il Regno Unito uscirà dall’Unione europea il 29 marzo 2019, indipendentemente dal fatto che ci sia o meno un accordo che mantiene in piedi buona parte dei suoi attuali trattati commerciali con l’Ue. In pratica, la data limite è il prossimo ottobre, poiché gli altri 27 stati dell’Ue hanno bisogno di tempo per ratificare l’accordo. Se non ci sarà accordo, il Regno Unito non potrà far altro che uscire nel peggiore dei modi dall’Unione, e la conseguenza sarà il caos.

Il volume degli scambi di beni e servizi tra il Regno Unito e il resto dell’Ue è talmente grande, e la preparazione necessaria a documentare la sicurezza e l’origine dei beni e a raccogliere gli oneri doganali sono così complesse, che la nuova frontiera finirebbe semplicemente per paralizzarsi.

Questa situazione assurda è dovuta quasi interamente alla guerra civile interna ai conservatori britannici

Questo creerebbe grandi difficoltà a molte aziende europee, ma per il Regno Unito sarebbe una vera e propria catastrofe. Per fare un esempio, due quinti delle componenti per le auto costruite nel Regno Unito provengono da altri paesi dell’Ue. Eppure buona parte del tempo disponibile per negoziare una Brexit morbida è già stato sprecato, e Londra non ha ancora una posizione realistica con la quale affrontare le trattative.

Questa situazione assurda è dovuta quasi interamente alla guerra civile interna ai conservatori britannici, tra i fautori della Brexit e il resto del partito. L’unico motivo per cui è stato organizzato un referendum è stato che il premier dell’epoca, David Cameron, pensava che una chiara sconfitta avrebbe fatto tacere i sostenitori dell’uscita dall’Ue e posto fino a tale guerra. Aveva fatto male i suoi calcoli.

I sostenitori della Brexit hanno agitato l’assurda immagine di un’Ue oppressiva e causa di tutti i mali del paese, vendendola alla vecchia generazione nostalgica, ai disoccupati e i sottoccupati che cercavano qualcuno da incolpare, oltre che a nazionalisti di ogni colore e origine.

Così facendo hanno vinto il referendum, con l’aiuto di mezzi d’informazione di destra ferocemente nazionalisti, spendendo ben oltre i limiti legali della campagna elettorale e, come appare oggi, con un considerevole sostegno da parte della Russia (il principale contribuente alla campagna per la Brexit, il ricchissimo investitore Arron Banks, ha incontrato l’ambasciatore russo almeno undici volte nel periodo precedente al referendum e nei successivi due mesi).

È ancora possibile che la ragione prevalga prima che il Regno Unita esca dall’Ue nel peggiore dei modi, naturalmente. Ma le possibilità non sono altissime.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it