Ecco un fatto interessante. Solo il 14 per cento delle persone nel Regno Unito è “nero, asiatico, meticcio o altro” (cioè non bianco). Eppure è non bianca la metà –quattro su otto – dei candidati in lizza per prendere il posto del primo ministro britannico Boris Johnson, caduto in disgrazia, come leader del Partito conservatore, e dunque nuovo o nuova premier.

Nel caso vi stiate preoccupando, questo articolo non tratta della lotta intestina al Partito conservatore britannico. Non solo non so chi vincerà la competizione; non riesco nemmeno a preoccuparmene più di tanto. I conservatori con buona probabilità sono politicamente spacciati per le elezioni del 2024, indipendentemente da chi sceglieranno.

Il 12 luglio sera restavano solo otto candidati. Tre degli altri non hanno ottenuto i voti sufficienti per superare la prima fase di selezione. Ma anche tutti e tre quelli che non ce l’hanno fatta appartengono tecnicamente alle “minoranze visibili”: Sajid Javid, Rehman Chisti e Priti Patel.

Evviva la diversità
Per cui restano in lizza Kemi Badenoch (origini nigeriane, nata in Inghilterra), Suella Braverman (origini indiane, nata in Inghilterra), Jeremy Hunt (origini inglesi, nato in Inghilterra), Penny Mordaunt (idem come sopra), Rishi Sunak (origini indiane, nato in Inghilterra), Liz Truss (origini inglesi, nata in Inghilterra), Tom Tugendhat (idem come sopra), e Nadhim Zahawi (origini curde, nato in Iraq).

La maggior parte di loro probabilmente è laica, ma anche nel Regno Unito c’è ancora un piccolo prezzo politico da pagare per chi lo dichiara pubblicamente. Perciò almeno formalmente tre sono protestanti, due sono cattolici, due sono indù e uno è musulmano. E le donne sono la metà. Evviva la diversità, ma cosa di dice questo rispetto a 1) il Regno Unito, 2) l’occidente e 3) il mondo?

Gli immigrati che riescono a emergere tendono a pensare che questo dipenda principalmente dai loro sforzi e si avvicinano ai partiti conservatori

Sulla diversità nella politica britannica dice meno di quel che sembra: 65 parlamentari “non bianchi” rappresentano esattamente il 10 per cento dei seggi, mentre nella popolazione generale sono il 14 per cento. Ma questa percentuale è aumentata a ogni elezione dal 1988 in poi, e probabilmente presto rifletterà accuratamente la composizione etnica della popolazione.

Però, addirittura la metà dei contendenti per il posto del prossimo premier britannico è “non bianca”? Davvero? Come si spiega questo fatto, soprattutto considerando che il Partito conservatore, pur occupando più della metà dei seggi in parlamento, ha solo un terzo di parlamentari “non bianchi”?

Velocità diverse
Probabilmente è dovuto a quella vecchia storia per cui gli immigrati lavorano ancora più sodo, non solo per inserirsi ma per emergere, perché l’ostilità di alcuni dei nativi li fa sentire insicuri. E gli immigrati che effettivamente riescono a emergere, come la gran parte delle persone affermate economicamente e professionalmente in ogni società, tendono a pensare che il loro successo dipenda principalmente dagli sforzi fatti. Una convinzione che li avvicinerà naturalmente ai partiti politici conservatori, e li porterà a sforzarsi di emergere all’interno di tali partiti. Quindi non c’è alcun mistero, nessun miracolo.

Ciò che colpisce è che la maggioranza bianca britannica, che solo una generazione fa era ancora apertamente razzista, oggi accolga di buon grado una lista di candidati premier in cui la metà è non bianca. Inoltre, nessuno di loro è un candidato fantoccio, e il vincitore più probabile è Rishi Sunak. E va bene a tutti che le donne siano la metà.

Questa trasformazione è in atto anche nel resto dell’occidente? Sì, ma a velocità diverse.

In Australia, in Canada e in Nuova Zelanda le “minoranze visibili” rappresentano circa un quarto della popolazione (rispettivamente il 24, il 25 e il 30 per cento), ma solo la Nuova Zelanda ha una percentuale proporzionale di parlamentari. Il Canada è fermo al 15 per cento di minoranze visibili in parlamento, mentre in Australia il dato crolla al 7 per cento. Vanno meglio con le donne parlamentari: 30 per cento in Canada, 39 per cento in Australia, 49 per cento in Nuova Zelanda.

La Germania è più o meno nella stessa situazione del Regno Unito: 14 per cento di minoranze visibili nel paese, ma solo l’11 per cento di seggi nel Bundestag. La Francia è messa molto peggio: solo nove deputati su 577 nell’Assemblea nazionale sono “non bianchi”, anche se questi rappresentano il 15 per cento della popolazione. Male anche per quanto riguarda le donne in parlamento: solo il 25 per cento in Germania e il 27 per cento in Francia.

Finora gli Stati Uniti sono l’unico paese “occidentale” ad aver avuto un capo di stato non bianco (Barack Obama), ma presto potrebbe toccare al Regno Unito. Sotto altri punti di vista però gli Stati Uniti restano indietro: nel congresso i non bianchi sono solo il 23 per cento, mentre costituiscono il 40 per cento della popolazione. E le donne sono solo il 27 per cento nel congresso.

E lo spettacolo finisce qui. A parte l’Europa occidentale e i suoi paesi-eredi oltreoceano, quasi nessuno sta conducendo un simile esperimento nella creazione di democrazie autenticamente multiculturali sulla spinta di migrazioni volontarie su vasta scala.

Possiamo già concludere che queste società emergenti sono molto meno turbolente e diseguali di quanto temessero i pessimisti (forse con l’eccezione degli Stati Uniti). Resta da vedere quali vantaggi potranno apportare nel lungo termine, ma finora tutto bene, pare.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

Leggi anche:

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it