Ha scritto Rebecca Solnit, sul Guardian di pochi giorni fa, che le presidenziali statunitensi si giocano anche sulla capacità delle donne sposate di difendere la propria autonomia di giudizio dalle scelte politiche dei loro mariti: ovvero di votare per Kamala Harris senza paura di “tradire” i mariti propensi a votare per Trump. Commento di Solnit: non sempre le famiglie sono microcosmi democratici; spesso sono microcosmi dittatoriali, con lui che pretende di decidere per lei pure il colore del voto. A me invece viene inevitabilmente in mente la protagonista di C’è ancora domani, il fortunato film di Paola Cortellesi, che il 10 marzo 1946 va a votare di nascosto e contro suo marito, e in quel gesto trova insieme la sua emancipazione politica e la sua liberazione personale.

Segmenti

Siamo tornati all’Italia degli anni quaranta del novecento, negli Stati Uniti degli anni venti del duemila? Io credo e voglio credere di no: di questi tempi il patriarcato gioca duro perché è ferito, non perché è florido. Ma la preoccupazione di Solnit è un indicatore preciso dei dettagli su cui si esercita, oggi come sempre, ma forse più che mai, l’arte dei sondaggi e si giocherà la conta dei voti nel testa a testa per la Casa Bianca più ravvicinato e dall’esito più imprevedibile che la recente storia statunitense ricordi. Nessuno, alla vigilia del voto, si azzarda a scommettere su Trump o su Harris, e tutti vanno alla ricerca dei dettagli decisivi: il voto delle donne (bianche e non), il voto degli operai declassati della rust belt, il voto delle comunità afro, ispaniche, arabe, israeliane, amish… tessere che non bastano più a comporre il complicato mosaico della società americana, perché ciascuna è a sua volta divisa e fratturata al suo interno.

Tanto per continuare sull’esempio delle gender politics: Kamala Harris – che, non dimentichiamolo, incarna nella propria persona il mito della donna nera figlia di immigrati che “ce l’ha fatta” nonostante le discriminazioni di razza e di genere – scommette sul voto delle donne, bianche e non, unite nella difesa della libertà delle scelte riproduttive femminili attaccate da Trump. È una scommessa potenzialmente vincente, più di quanto non lo fosse otto anni fa quella “troppo bianca” e troppo neoliberal di Hillary Clinton, e tuttavia lo stesso elettorato femminile compatto nella difesa dell’aborto non è altrettanto compatto – come in Italia, del resto – su temi sensibili come la gestazione per altri o le rivendicazioni della galassia lgbt+. Soprattutto, il segmento elettorale da tenere d’occhio rischia di non essere più tanto quello femminile quanto quello maschile: uomini bianchi in crisi d’identità – per lo più, ahinoi, sotto i trent’anni – sedotti dal machismo suprematista di Trump, uomini neri e ispanici tentati a loro volta dal miraggio di un ritorno ai ruoli tradizionali nelle loro comunità. Ed è così per tutte le altre tessere del mosaico: la lente identitaria non basta più a decifrarlo.

Movimenti

Quattro anni fa, nel movimento nato dall’assassinio di George Floyd, si era affermato infatti il criterio dell’intersezionalità: non si trattava più di sommare gli apporti elettorali di comunità identitarie diverse ma di cercare i punti di intersezione tra le linee di discriminazione di genere, razza e classe, e di costruire una coralità politica sulla base di una critica comune al razzismo, al sessismo e al classismo sistemici del capitalismo statunitense. Quel movimento oggi non c’è più, ma l’ispirazione intersezionale è rimasta viva nel movimento a favore della Palestina che ha infiammato le università americane l’anno scorso, rafforzando la critica del sistema con la prospettiva anticoloniale e pacifista. Senonché, mentre nel 2020 quel movimento dal basso ha avuto il suo ruolo nel portare alla vittoria la coalizione sociale pro-Biden, oggi di un analogo circolo virtuoso tra contestazione e rappresentanza non c’è traccia.

Kamala Harris non ha risposto alle domande di un cambio di rotta rispetto a Biden sulla questione mediorientale, e rischia su questo di pagare pegno sia nell’elettorato arabo sia in quello giovanile. Nemmeno si sente una vaga eco di critica di sistema nella sua proposta della opportunity economy rivolta alla classe media, che per quanto largamente preferibile alla miscela trumpiana di populismo e turbocapitalismo resta saldamente ancorata a un credo compiutamente neoliberale. Ma senza questi due scarti rispetto al passato della politica dem, che cosa resta del “nuovo capitolo del futuro” basato sulla speranza e sulla gioia che Harris aveva promesso al suo elettorato alla convention di Chicago? Che cosa resta di quell’accorato invito lanciato allora da Michelle Obama a “uscire dalla luttuosità” dell’epoca trumpiana?

Metà del popolo statunitense in quella luttuosità fatta di messaggi aggressivi, di minacce di guerra civile, di contestazioni preventive dell’esito del voto, di machismo sopra le righe, di fantasmi di migranti che mangiano gatti e rubano posti di lavoro, di falsità inventate contro ogni evidenza, sembra proprio volerci rimanere. Dimenticando o condonando non solo l’assalto a Capitol Hill, ma anche tutti i guasti del primo mandato presidenziale di Trump: la sua retorica violentemente divisiva, le sue promesse di reindustrializzazione del Midwest rimpiazzate con politiche prone agli interessi di Wall street, la sua piena occupazione fatta di precari ed essentials malpagati, le sue milizie speciali mobilitate contro gli immigrati nelle città più accoglienti, la sua accelerazione del declino e dell’isolamento degli Stati Uniti coperta dallo slogan “Make America great again”, la sua pessima gestione negazionista della pandemia. E il sequel, come ha detto Barack Obama alla convention di Chicago, “sappiamo che sarebbe peggiore”.

Misteri

È questo alla fine il grande mistero che queste presidenziali ripropongono agli Stati Uniti e all’occidente democratico: di che pasta sia fatto il legame che unisce una parte del popolo, talvolta maggioritaria, a leader populisti che lo seducono godendo della demolizione della democrazia, della distruzione del confine tra vero e falso, di una ostentazione di potenza maschile che nasconde un fantasma persecutorio di impotenza. Trump non è né il primo né l’unico di questi leader populisti, e in Italia ne sappiamo qualcosa da prima che lui spuntasse all’orizzonte. Ma certo inquieta, in una società come quella statunitense tradizionalmente portata al mutamento veloce, il ripresentarsi per la terza volta – 2016, 2020, 2024 – della stessa piattaforma devastatrice dall’alto premiata da un consenso diffuso dal basso.

Che cosa significa dunque questa ripetizione della confrontation tra la tenuta della democrazia americana e la sua programmatica distruzione trumpiana, e che cosa differenzia questa terza puntata della serie dalle due precedenti? Il testa a testa fra Trump e Harris ci dice, in primo luogo, che la strategia di normalizzazione tentata da Biden quattro anni fa, volta a ripristinare il funzionamento fisiologico della macchina democratica statunitense dopo “l’anomalia” trumpiana, non è riuscita, o almeno non del tutto. Pessimo leader in politica estera, Biden è stato un buon presidente in politica interna, come dimostra l’impressionante tasso di crescita – sette punti in più di produttività – della pur declinante prima potenza mondiale, un dato che rimane positivo malgrado l’inflazione e l’aumento del costo della vita. Eppure stavolta neanche il buon andamento dell’economia riesce a placare le insoddisfazioni, i rancori e gli umori distruttivi e autodistruttivi filotrumpiani dell’America profonda. A dimostrazione del fatto che dagli assalti populisti la democrazia non si salva, né negli Stati Uniti né altrove, tornando “normale”: o fa un salto di qualità, non solo ripristinando la sua regolarità formale ma autoriformandosi in senso più egualitario e inclusivo, o si impantana in una deriva inarrestabile verso il peggio di prima. Questo salto di qualità non c’è stato ed è il primo atto mancato della strategia democratica di contenimento del trumpismo.

Plutocrati

Il secondo, e connesso, atto mancato è l’allarme insufficiente nei confronti non tanto del revenant di Donald Trump, quanto dell’avvento del suo compare Elon Musk. Perché nel loro tandem non c’è solo la precipitazione della tendenza plutocratica del sistema statunitense, né “solo” l’occupazione privata della sfera pubblica, con relativa gestione algoritmica e totalitaria della propaganda politica. C’è il germe di un’alleanza organica tra post-democrazia autoritaria e futurismo digitale che è in grado davvero di cambiare radicalmente, e imprevedibilmente, le sorti del pianeta.

Un pianeta, come ben sappiamo, già terremotato da due guerre che hanno messo a nudo senza sconti il declino dell’egemonia americana. Aver lasciato a Trump il vessillo della promessa di pace, continuando a impugnare quello della guerra infinita contro gli autocrati da una parte e quello del sostegno ai massacri di Netanyahu dall’altra, è il terzo – imperdonabile – errore dei democratici statunitensi, come del resto di ciò che resta delle sinistre europee. Sarà pur vero che gli elettori americani sono tradizionalmente poco sensibili alla politica estera del loro paese, ma intanto quella promessa di Trump rischia di pagare, malgrado sia tanto vaga su come siglare la pace in Ucraina tanto precisa su come siglarla in Medio Oriente, a spese dei palestinesi e al prezzo dell’inasprimento del conflitto con l’Iran.

Se vince Trump, anzi il tandem Trump-Musk, si aprono scenari imprevedibili e tutt’altro che pacificati, sia all’interno sia all’esterno degli Stati Uniti. Se vince Harris, ci sarà da combattere dall’interno del fronte democratico, come auspica Bernie Sanders, perché la prospettiva della pace si faccia strada contro i bollori bellicisti. Nell’un caso e nell’altro l’Europa sarà costretta a ripensare sé stessa: nel primo caso ricontrattando – si spera – il proprio ruolo all’interno di un atlantismo che sotto la presidenza Biden l’ha indebolita economicamente e politicamente, nel secondo fronteggiando una connessione transatlantica delle destre radicali e delle democrazie illiberali che rischia di demolirla. ◆

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