C’è una battaglia sorda che va avanti da mesi in alcune sopraelevate pedonali a Hong Kong. Gli attivisti del fronte democratico e i loro sostenitori attaccano manifesti e adesivi con immagini che inneggiano alle proteste, con slogan a favore del suffragio universale e denunce della violenza della polizia. Poi passano i sostenitori del governo e del Partito comunista cinese e li strappano, lasciando le tracce sui muri: pezzetti di scotch, che si anneriscono presto per la polvere, e i resti pieni di colla di un adesivo rimasto per metà appiccicato al muro.
Da quando è entrata in vigore la nuova, severissima legge sulla sicurezza nazionale, imposta da Pechino senza alcuna consultazione con Hong Kong, i sostenitori del Partito comunista sembrano aver avuto la meglio. La norma, che punisce gli atti di sovversione, secessione, terrorismo e “complicità con le forze straniere”, ha messo fuori legge molti degli slogan che hanno caratterizzato le manifestazioni in città. Le pene previste sono così pesanti che forse non conviene più portare avanti la battaglia degli adesivi.
L’identità ribelle di Hong Kong
Hong Kong oggi è un posto dove le cose spariscono: pennellate grossolane coprono i graffiti dei manifestanti, lasciando spesse ombre. Gli account di Twitter, Instagram e Facebook scompaiono, e alcune persone scrivono ai loro contatti chiedendo di cancellare le chat su WhatsApp.
Le poche, testarde manifestazioni a favore della democrazia che si sono svolte dall’annuncio dell’entrata in vigore della legge, il 1 luglio, sono state portate avanti da ragazzi e ragazze con in mano fogli bianchi, immobili e in silenzio. Alcuni di loro sono stati comunque arrestati dopo che la polizia aveva issato la bandiera viola, quella che avverte su possibili violazioni della nuova legge sulla sicurezza nazionale.
Le lacrime trattenute sono la punteggiatura che scandisce le conversazioni con gli amici: “E tu cosa farai? Pensi di partire?”. La risposta cambia a seconda dei casi, perché solo chi ha un passaporto straniero può lasciare il paese. Ma tutti sono sgomenti: anche chi ha deciso di partire, lo fa controvoglia.
C’è anche chi ha deciso di continuare a vivere normalmente, e di sfidare l’autocensura che s’installa nella mente di ognuno
La stampa ha avuto indicazioni vaghe su quello che si può ancora scrivere. Molti opinionisti stanno chiedendo alle loro redazioni di cancellare dagli archivi online gli articoli che potrebbero essere considerati troppo vicini alle posizioni del fronte democratico. Altri hanno detto che non si occuperanno più di politica o hanno dato le dimissioni. Il nuovo corso si è già occupato di aprire un’inchiesta su Rthk, la radio e televisione pubblica di Hong Kong, accusata di essere a favore dei manifestanti per aver raccontato l’uso eccessivo della violenza da parte delle forze dell’ordine. Un programma satirico è stato sospeso per aver fatto battute sulla polizia.
Ma lo sgomento è ancora più profondo, è uno shock culturale. La giustizia di Hong Kong, da ex colonia britannica, fino a ieri seguiva il sistema legale britannico, ovvero la common law (in parte continua a farlo, per i reati non compresi nella nuova legge). Ora invece è stata introdotta con la forza una cultura giuridica di tipo socialista: i delitti e le pene sono descritti in modo ambiguo, e i cittadini devono obbedire agli ordini del partito.
Non si tratta di semplici doveri civici, come guidare correttamente l’auto o pagare le tasse, ma di obblighi morali, imposti come se fossero doveri giuridici. Tra questi c’è l’obbligo di non opporsi al governo, di non provocare con le proprie parole “l’odio nei confronti del governo di Hong Kong o di quello centrale” e il dovere di promuovere la nuova legge. Indicazioni vaghe, che prevedono che i sentimenti delle persone siano per decreto dalla parte del potere. E concetti alieni alla common law, basata sui precedenti penali storici, su definizioni molto specifiche dei crimini punibili e delle pene da infliggere.
C’è anche chi ha deciso di continuare a vivere normalmente, e di sfidare l’autocensura che s’installa nella mente di ognuno. C’è chi spera che questo sia solo il tentativo di riportare la città alla calma, per poi lasciare che le abitudini di Hong Kong riprendano simili al passato, senza le proteste ma con forme più sottili di resistenza a un cambio culturale così radicale.
Negli ultimi quindici anni Hong Kong ha chiesto con crescente insistenza di poter scegliere da chi essere governata, e come. Pretendeva che fosse rispettato l’accordo tra Pechino e il governo britannico, garantito dalla costituzione della città. Per il Partito comunista cinese però era inaccettabile che una parte del suo territorio potesse avere una simile voce in capitolo. Con l’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale, il cambiamento è stato sconvolgente. E il futuro di Hong Kong oggi è più imprevedibile che mai.
Questo articolo è uscito sul numero 1366 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati
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