(Il poeta Ko Un)

Cosa sta succedendo in Corea? La penisola non è mai stata così divisa come in questi ultimi mesi, eppure il resto del mondo – rimasto lo scorso aprile con il fiato sospeso per una decina di giorni nell’attesa, inutile, di un attacco nucleare del “folle regime di Pyongyang” (Andrei Lankov, uno degli esperti di Corea del Nord più accreditati, nel suo ultimo libro spiega che in realtà il governo dei Kim è molto lucido) – sembra non curarsene affatto.

La minaccia si è rivelata infondata, la tensione è scesa e l’adrenalina è rientrata nei livelli di guardia, ma i rapporti tra le due Coree sono ridotti ai minimi termini e a Seoul c’è chi non è per niente tranquillo. Per la prima volta in nove anni di attività, infatti, il complesso industriale di Kaesong, cogestito da Seoul e Pyongyang, è fermo, e le aziende sudcoreane proprietarie degli impianti fremono e contano le perdite che si accumulano di giorno in giorno.

Il complesso di Kaesong, dieci chilometri a nord del trentottesimo parallelo, è una delle reliquie della defunta sunshine policy, la politica di distensione dei rapporti con Pyongyang inaugurata dal presidente sudcoreano Kim Dae-jung nel 1998, portata avanti dal suo successore Roh Moo-hyun, e definitivamente sepolta dal conservatore Lee Myung-bak nel 2010.

Da maggio questo simbolo della cooperazione tra le due Coree, che ospita gli stabilimenti di 123 aziende del Sud e impiega 53mila operai del Nord, è fermo. Nell’ennesima prova di forza di Pyongyang – la prima per il giovane erede della dinastia dei Kim, Jong-un –, il segnale che gli osservatori temevano di più – più delle minacce di un nuovo test missilistico – è arrivato: la Corea del Nord ha ritirato tutti i suoi operai e espulso gli impiegati e i dirigenti che ogni mattina attraversavano il confine da sud. Nemmeno nel 2010, in piena crisi dopo che un siluro nordcoreano aveva affondato una nave della marina del Sud con più di cento militari a bordo, si era arrivati a tanto.

In questi giorni i due governi stanno negoziando l’avvio di un dialogo sulla ripresa delle attività, ma a quanto pare a Seoul la questione non sta molto a cuore. La presidente Park Geun-hye prima ha mandato degli aiuti umanitari a Pyongyang per oliare la trattativa, e poi ha posto come condizione per la riapertura di Kaesong l’impegno del Nord a non sospendere mai più unilateralmente le attività del complesso. Una sorta di ultimatum a cui Kim Jong-un, che forse non ha gradito, non ha ancora risposto. Intanto le aziende sudcoreane fremono, chiedono di poter almeno andare a vedere in che condizioni sono gli impianti, e premono perché il governo ammorbidisca i toni, onde evitare lo strappo.

Nonostante il clima pessimo, un filo di speranza è rimasto intatto. A tesserlo è un uomo di ottant’anni, alto, magro e gentile, con un borsalino di paglia in testa e due sopracciglia che paiono disegnate dal pennello di un pittore zen. “La sunshine policy, la politica del raggio di sole, è ormai un ricordo del passato ma, se il giorno della riunificazione dovesse mai arrivare, beh, quel giorno non solo il sole, ma anche la luna e le stelle tornerebbero a brillare”.

Ko Un, il più grande poeta coreano vivente, più volte candidato al Nobel per la letteratura – ma anche autore di romanzi, pittore, attivista negli anni della dittatura militare, ex monaco buddista –, alla possibilità di una riconciliazione tra Nord e Sud non crede quasi più. E i segnali degli ultimi giorni non gli danno torto. Ma, a ottant’anni, fa parte della generazione di intellettuali che ha subìto, insieme al suo paese, le ferite di un secolo spietato – dalla dominazione giapponese, alla guerra del 1950-53, alla divisione in due della penisola–, e che conserva ancora il ricordo della Corea unita.

In un pomeriggio di inizio agosto, nel caffè di un grande hotel di Seoul, il poeta ci disegna passato e presente della storia travagliata della Corea, e ci spiega che oltre a Kaesong c’è un altro progetto comune in corso tra Nord e Sud. Fuori il monsone rovescia la sua dose quotidiana di acqua tiepida sulla città, mentre Ko Un parla per quasi tre ore senza interruzione. Insieme a una squadra di linguisti nord e sudcoreani sta lavorando a un progetto mastodontico: un dizionario della lingua comune della penisola.

Dopo più di sessant’anni di divisione, a nord e a sud del trentottesimo parallelo la lingua si è trasformata in maniera diversa e, soprattutto al Sud, ha acquisito termini sconosciuti al Nord. A lungo andare il rischio è che i due paesi non riescano più a parlarsi. Letteralmente. “Il dizionario sarà pronto tra quattro anni, servirà a fissare gli elementi comuni tra le due lingue prima che si perdano per sempre e, se un giorno il paese sarà di nuovo unito, sarà il punto di partenza per una nuova lingua coreana”, ci spiega il poeta che sta anche premendo per far approvare una legge che garantisca la continuazione dei lavori anche nel caso dovesse scoppiare una guerra con Pyongyang.

Il fatto che recentemente, in piena crisi diplomatica, il progetto di collaborazione sia stato prolungato di altri cinque anni, promette bene. Mentre alle nuove generazioni di sudcoreani non sembra importare granché della riunificazione della penisola, Ko Un è convinto che il ricordo ormai sbiadito della sunshine policy non sia perso per sempre. Lui, che nel 2000 era a Pyongyang in occasione dell’incontro storico tra Kim Jong-il e Kim Dae-jung (valso al presidente sudcoreano il Nobel per la pace), quando la possibilità di una riconciliazione aveva convinto anche i più scettici, conserva ancora una speranza. E, col sorriso sulle labbra, ci regala la storia di come finì a recitare una sua poesia davanti a Kim Jong-il.

“Facevo parte della delegazione sudcoreana, ma non era previsto che avrei letto dei versi. Arrivato nella mia stanza d’albergo a Pyongyang, una stanza enorme, ho trovato il mobile bar più fornito che avessi mai visto in vita mia. C’erano tutti i tipi di alcolici disponibili in Corea del Nord. Ho assaggiato un sorso di ognuno, saranno state trenta bottiglie, e “inebriato” ho composto una poesia”. Nel cuore della notte il telefono di Ko Un ha squillato. Era lo storico Kang Man-gil, un altro grande intellettuale del XX secolo, anche lui parte della delegazione. Agitato per l’evento epocale a cui avrebbe assistito il giorno dopo, Kang non riusciva a dormire, così i due sono andati a fare due passi lungo il fiume di Pyongyang.

“Abbiamo aspettato l’alba, gli ho fatto leggere i versi che avevo composto e mi sono rimesso il foglietto in tasca. L’indomani abbiamo aspettato tutto il giorno la dichiarazione congiunta dei due presidenti su cui evidentemente non si trovava un accordo. Finalmente, durante la cena ufficiale, la dichiarazione è arrivata, e nell’enorme salone da ricevimento l’attesa si è trasformata in festa”. A quel punto Kang Man-gil, lo storico, ha riferito della poesia al presidente sudcoreano e i due, all’insaputa di Ko Un, hanno chiesto a Kim Jong-il il permesso di fargliela leggere. “Kim ha acconsentito e il ministro dell’unificazione ha preso il microfono annunciando, con mio stupore, che avrei letto i miei versi. E se non avessi portato con me in tasca quel foglietto?”.

Per la prima volta nella storia della Corea divisa, le tv dei due paesi hanno trasmesso in contemporanea le stesse immagini: Ko Un che recitava i versi di Davanti al fiume Taedong.

*…I tempi del cambiamento stanno arrivando

Lungo una strada che nessuno può bloccare.

Solo il cambiamento porta la verità…*

(Grazie a Vincenza D’Urso per l’interpretariato)

*Junko Terao è l’editor di Asia e Pacifico di Internazionale. Su Twitter: @junkoterao *

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