La prima reazione all’elezione di Donald Trump in Asia è arrivata dalle borse, che il 6 novembre hanno fatto un tonfo all’annuncio della sua vittoria. E tutti si chiedono se le minacce fatte da Trump nei mesi scorsi, per esempio quella di alzare i dazi sulle merci cinesi, fossero solo parte della sua strategia elettorale o se lo farà davvero. Del resto la prima presidenza Trump è stata segnata dalla guerra commerciale con la Cina, che ha visto triplicare i dazi su buona parte del proprio export verso gli Stati Uniti. Ora Trump minaccia di portare al 60 per cento i dazi su una serie di merci e, anche se volti a colpire la Cina, il rischio è che ne paghino le conseguenze anche altri paesi, tra cui alleati degli Stati Uniti come Giappone e Corea del Sud, ma anche Thailandia e Vietnam e altre economie che si reggono sul commercio.

Comunque Xi Jinping si è congratulato con Trump auspicando “una collaborazione per una nuova era di relazioni” tra i loro due paesi e in generale i comunicati ufficiali circolati sulla stampa sono molto stringati e di circostanza. Venerdì il Global Times, quotidiano in inglese a cui la leadership di Pechino affida in genere i commenti fuori dai denti, ha pubblicato un editoriale dal tono insolitamente pacato e istituzionale in cui in sostanza ripeteva il refrain dei comunicati ufficiali usciti nelle ore precedenti: “Si spera che le due parti, in base ai princìpi del rispetto reciproco, della coesistenza pacifica e della cooperazione vantaggiosa per tutti, rafforzino il dialogo e la comunicazione, gestiscano adeguatamente le differenze, espandano la cooperazione reciprocamente vantaggiosa”.

Il quotidiano ricorda che “oggi la Cina è uno dei primi tre mercati di esportazione per 32 stati americani, con più di 70mila aziende statunitensi che investono e stabiliscono attività in Cina e 930mila posti di lavoro negli Stati Uniti sostenuti solo dalle esportazioni verso la Cina”. E accenna anche agli ultimi successi della diplomazia dei panda, alla fabbrica della Tesla in costruzione a Shanghai e a vari altri motivi per cui è opportuno che i due paesi stabiliscano un rapporto pacifico.
“Il modo in cui Trump si impegnerà con Taiwan è una delle domande più importanti della sua seconda presidenza”, scrive il Nikkei Asia. “Gli Stati Uniti sono di gran lunga il più importante partner politico e di sicurezza di Taipei e la politica della Casa Bianca avrà un impatto diretto sulla capacità di Taiwan di resistere alle minacce della Cina alla sua sovranità. Il presidente Lai Ching-te e il ministro degli esteri Lin Chia-lung si sono subito congratulati con Trump. Lin ha dichiarato che Taiwan, in quanto potenza chiave nel settore dei semiconduttori, sarà un attore cruciale nell’aiutare il presidente eletto a realizzare il suo slogan ‘Make America Great Again’”.

Se dal punto di vista politico non ha molto da temere, dato che negli Stati Uniti gode di un appoggio bipartisan e sa come corteggiare entrambi gli schieramenti politici, dal punto di vista economico e commerciale Taiwan rischia seri contraccolpi. Trump, infatti, aveva molto criticato il Chips act, la legge approvata dal congresso statunitense nel 2022 che prevede miliardi di dollari di sostegno per portare la produzione di semiconduttori sul suolo americano. Ad aprile Washington ha annunciato sussidi per 6,6 e 6,4 miliardi di dollari rispettivamente alla taiwanese Tsmc e alla sudcoreana Samsung, rendendole due dei maggiori beneficiari del Chips act. Questi annunci, però, sono solo preliminari e gli accordi finali non sono stati raggiunti, quindi l’amministrazione Trump potrebbe modificarne i termini.

La Corea del Sud, alleato strategico degli Stati Uniti, ora è impegnata in una fitta relazione con l’Ucraina, alla luce dell’invio di soldati nordcoreani a combattere con i russi, e sta pensando di mandare armi a Kiev, mentre Trump si definisce “amico di Putin”. “Ci si aspetta che Trump persegua una politica estera ancora più aggressiva e unilaterale”, scrive Hankyoreh. “In campagna elettorale ha minacciato di imporre un dazio del 10 o 20 per cento su tutte le importazioni negli Stati Uniti, oltre a uno del 60 per cento sui prodotti cinesi. Si teme che la guerra tariffaria di Trump possa scatenare un caos simile a quello che colpì l’economia mondiale nel 1930. Trump ha anche criticato la Nato e Seoul sulla questione dei costi della difesa e ha minacciato di esercitare pressioni”, e vorrebbe che la Corea del Sud e il Giappone pagassero di più per la presenza militare statunitense sul loro suolo. Addirittura c’è chi crede che con Trump sia a repentaglio l’assistenza di Washington a Seoul nel campo della difesa.

Quanto agli altri, il primo ministro indiano Narendra Modi e il presidente filippino Ferdinand Marcos jr sono stati tra i primi leader asiatici a congratularsi con Trump, come loro leader dal piglio autoritario e con un’interpretazione molto personale e discutibile della democrazia. Modi su X ha chiamato Trump “mio amico” e probabilmente intravede all’orizzonte rapporti più distesi in merito agli omicidi di due attivisti sikh di cui Washington, insieme al Canada, accusa New Delhi.

Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.

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