Si potrebbe benissimo parlare di effetto Trump. Durante la campagna elettorale il futuro presidente degli Stati Uniti aveva giurato che avrebbe risolto la crisi in Ucraina “in 24 ore”, prima ancora della cerimonia di insediamento. E invece, per il momento, stiamo assistendo a un’escalation brutale sia sul campo di battaglia sia su quello delle minacce, compresa quella dell’utilizzo dell’arma atomica da parte della Russia.

A ben vedere non si tratta di un paradosso. L’instabilità attuale, infatti, nasce anche dall’imminente avvicendamento a Washington. Ognuno dei protagonisti vuole rafforzare la propria posizione prima della nuova fase del conflitto, a cui parteciperà un presidente statunitense imprevedibile. Ma l’escalation ha anche una logica sua, indipendente dalle evoluzioni a Washington. Questa logica potrebbe diventare pericolosamente fuori controllo.

Lo dimostra il fatto che gli ultimi due annunci hanno effettivamente provocato un aumento dei rischi. Dopo mesi di esitazioni, Joe Biden ha alla fine deciso di autorizzare l’utilizzo dei missili a lungo raggio consegnati all’Ucraina contro obiettivi militari in territorio russo. Kiev non ha perso tempo e ha condotto i primi attacchi. Il secondo annuncio, invece, è quello con cui Vladimir Putin ha ampliato la possibilità di usare le armi nucleari. Non è la prima volta che Putin aleggia una minaccia simile, ma l’effetto è innegabile.

Dopo tre anni di guerra sembra che si stia avvicinando una sorta di momento della verità. Putin ha fallito nella prima fase della sua offensiva, che pensava di completare in poche settimane. In seguito l’esercito russo si è riorganizzato, ha dedicato l’immensa forza produttiva del paese allo sforzo bellico, ha ricevuto armi e munizioni dall’Iran e ha perfino impiegato sul campo soldati nordcoreani. Mosca ha approfittato delle esitazioni degli occidentali sugli armamenti, come abbiamo visto con Biden.

Fino a quando uno schieramento pensa di poter prevalere, la guerra va avanti. In questo caso è Putin a sentirsi forte, perché dispone di più risorse, più carne da cannone e più cinismo rispetto agli avversari. Colpendo le città ucraine, il presidente russo scommette sull’ostilità a questa guerra di Trump e dei suoi alleati europei, come l’ungherese Viktor Orbán, per tarpare le ali degli ucraini e costringerli ad accettare un accordo che rispecchi la situazione attuale sul campo.

Per l’Ucraina il momento è assolutamente decisivo. La resistenza di Kiev è messa a dura prova dai bombardamenti incessanti che privano parte della popolazione dell’elettricità e del riscaldamento, dall’arretramento delle sue posizioni nell’est e dalla preoccupazione di una scomparsa del sostegno esterno.

Parte dell’Europa non vuole abbandonare l’Ucraina, nella convinzione che una vittoria di Putin metterebbe in pericolo la sicurezza di tutto il continente. Ma i filoucraini, guidati dalla Polonia, sanno di non avere i mezzi per aiutare Kiev da soli. Dunque bisognerà convincere la prossima amministrazione statunitense che una capitolazione dell’Ucraina non è nel suo interesse.

Questo è il contesto, estremamente complicato, in cui si è verificata l’improvvisa escalation con tanto di minaccia nucleare, che non va ignorata ma nemmeno presa troppo sul serio. L’unica certezza è che tra due mesi, a Washington, si insedierà una nuova amministrazione, e che le carte in tavola saranno redistribuite. Fino ad allora saranno le armi a parlare.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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