Anche se la Cina si dichiara un paese comunista, bisogna fare caso alla borsa per capire l’umore dei cinesi. All’inizio dell’anno c’erano già 160 milioni di operatori attivi, a cui se ne sono aggiunti diversi milioni nelle ultime settimane a causa di un’eccitazione frenetica sui mercati.

Il motivo per cui tutti osservano l’evoluzione della borsa è che oggi, in Cina, serpeggia un profondo malessere, tanto politico quanto economico. Dall’inizio del secolo i cinesi hanno vissuto una lunga fase di ottimismo dovuta alla crescita economica, rimasta a doppia cifra durante tutti gli anni duemila. Fino a quando non è arrivato il momento dei dubbi.

Dopo la pandemia e l’isolamento inutilmente brutale e prolungato, i dubbi hanno ceduto il posto alla diffidenza, che è cresciuta esponenzialmente con la violenta crisi del settore immobiliare (cruciale nella vita delle famiglie) e la disoccupazione di massa dei giovani laureati. Questi problemi hanno rimesso in discussione parte del contratto sociale, provocando una vera e propria crisi di sfiducia nei confronti di Xi Jinping, onnipotente capo del Partito comunista.

A fine settembre il governo di Pechino ha annunciato un grande piano di rilancio economico. Era da mesi che i cinesi attendevano una mossa simile davanti al rallentamento. Si tratta di un rimedio classico a cui il governo ha fatto ricorso spesso in passato.

Sui mercati azionari l’effetto è stato immediato, con un rialzo del 25 per cento maturato nel giro di pochi giorni dopo quattro anni di declino. In seguito la borsa di Shanghai è stata chiusa una settimana per la festa nazionale, riprendendo le contrattazioni solo l’8 ottobre e registrando subito un ulteriore aumento del 10 per cento in attesa dei dettagli sulle misure varate da Pechino. A quel punto, però, il pubblico è rimasto deluso, e il rialzo si è ridotto.

Questa frenesia azionaria evidenzia prima di tutto la volatilità della fiducia della popolazione. Per Xi la posta in gioco è chiaramente politica. Il numero uno cinese ha progressivamente concentrato tutti i poteri nelle proprie mani, rafforzando il controllo politico e la sorveglianza nei confronti dei cittadini, e favorendo l’economia di stato a spese del settore privato. L’ossessione è una sola: preparare la Cina a un grande scontro con gli Stati Uniti, ritenuto ormai inevitabile.

Ma intanto i cinesi più ricchi hanno lentamente preso la via dell’esilio verso Tokyo o Singapore, mentre migliaia di giovani laureati cercano di emigrare negli Stati Uniti percorrendo la pericolosissima rotta dell’America Centrale.

Con il suo piano di rilancio, il governo cinese ha tentato di riconquistare la fiducia delle famiglie, nelle cui mani ci sono grandi risparmi, ma che tuttavia non vogliono spendere. Il rilancio promesso ha incanalato verso la borsa parte di questo denaro, ma gli esperti dubitano che l’economia cinese possa uscire presto dal marasma in cui si trova.

Gli eventi delle ultime settimane saranno analizzati con attenzione. Il fatto che la borsa sia il barometro della fiducia in un paese comunista è l’ennesimo paradosso cinese. Perfino Xi dovrà rifletterci sopra.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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