Da quasi quattro anni il regime cinese guidato da Xi Jiping ha impresso un poderoso giro di vite ai protagonisti dell’economia nazionale. Pechino ha dichiarato guerra ai grandi colossi tecnologici, a partire da Alibaba e dal suo fondatore Jack Ma, e in generale alle imprese private, compresi ovviamente gli investitori stranieri. Settori come la finanza, l’elettronica di consumo e l’edilizia sono ormai caduti in disgrazia: chi ci lavora deve subire gli attacchi del governo, che condanna apertamente il loro “stile di vita edonistico”. Alle principali aziende finanziarie è stato ordinato di tagliare gli stipendi e altre spese: nel 2023 la China International Capital ha ridotto del 40 per cento il compenso dei dirigenti, mentre la Citic Securities ha abbassato del 15 per cento gli stipendi più bassi. I viaggi in business class sono stati dichiarati “un’ostentazione di ricchezza in pubblico”.

Ma c’è un settore che il presidente non riesce a piegare alla sua volontà: i mercati finanziari. Come racconta Bloomberg, da tempo gli indici azionari sono in forte calo a causa di un’ondata di vendite, chiara conseguenza del fatto che gli investitori e i risparmiatori non hanno molta fiducia nell’economia cinese. La cosa non piace al governo, che ha emanato una serie di misure per “convincere” i mercati a crescere, allineandosi alle principali borse mondiali. Ha ordinato ai fondi d’investimento controllati dallo stato di spendere miliardi di dollari nell’acquisto di azioni per farne salire il valore: secondo alcune stime, sono stati immessi nel mercato circa 66 miliardi di dollari. Inoltre, sono state decise restrizioni severissime sul trading quantitativo (gli investimenti basati sull’uso di sofisticati modelli di calcolo matematici e statistici) e sulle vendite allo scoperto, considerati i principali colpevoli della volatilità dei mercati; quindi è stato “consigliato caldamente” alle aziende di aumentare il riacquisto di azioni e di distribuire dividendi più alti agli azionisti; a febbraio, infine, è stato licenziato a sorpresa il capo dell’autorità di vigilanza sui mercati finanziari.

Gli effetti sono stati a dir poco deludenti, se si considera che il Csi 300, l’indice che segue i trecento principali titoli scambiati alle borse di Shanghai e Shenzhen, è ai livelli più bassi dal 2019, quest’anno ha già perso il 7 per cento e si avvia a chiudere in rosso il quarto anno consecutivo. Inoltre, le borse della Cina continentale e di Hong Kong messe insieme hanno perso 6.500 miliardi di dollari rispetto al picco del 2021, una cifra pari al valore dell’intero mercato azionario del Giappone.

Spesso si dice che i mercati finanziari siano scollegati dalla realtà. Nel caso delle borse cinesi è vero il contrario: i ribassi continui sono la reazione a un’economia alle prese con problemi molto gravi. La Cina subisce ancora gli effetti della devastante esplosione della bolla immobiliare, che sta penalizzando un settore chiave del sistema economico e rallenta i consumi. Pesano, inoltre, gli effetti dello scontro commerciale con gli Stati Uniti e di altre tensioni geopolitiche, oltre al crescente controllo pubblico sulle imprese private. Tutto questo succede mentre è in corso una forte deflazione, cioè la tendenza al ribasso dei prezzi causata dal fatto che l’offerta della aziende non incontra una domanda adeguata. Perfino i dati più recenti pubblicati dal governo, che tra l’altro è accusato di manipolare o addirittura nascondere le informazioni, confermano il rischio di una spirale deflattiva in cui i consumatori spendono sempre meno e le aziende sono costrette a tagliare la produzione e a licenziare i dipendenti.

Xi Jinping ovviamente è consapevole di questi problemi. Ma la sua ricetta per risolverli contrasta con quella suggerita da molti esperti e appoggiata dai mercati finanziari. Di solito per fermare la deflazione s’incentiva la domanda interna. Il Financial Times riferisce che secondo gli analisti di alcune grandi banche d’affari la Cina avrebbe bisogno di un programma di stimoli da diecimila miliardi di yuan (1.400 miliardi di dollari) nei prossimi due anni, una cifra pari a due volte e mezzo quella stanziata da Pechino dopo il crollo finanziario globale del 2008. Il piano, sostengono gli analisti, dovrebbe essere rivolto direttamente alle famiglie, soprattutto attraverso la realizzazione di un welfare migliore. Per esempio, offrendo schemi pensionistici e servizi sanitari ai 250 milioni di lavoratori migranti, quelli che si spostano dalle campagne alle città, che oggi di fatto ne sono privi.

La risposta di Xi va in tutt’altra direzione: il governo continua a mettere soldi nell’industria con l’obiettivo di potenziare la manifattura e le esportazioni, anche a costo di aumentare l’offerta di beni che in Cina non trovano compratori e fanno peggiorare la deflazione. Rispetto al passato, quando per esempio erano stati incentivati gli investimenti nel settore immobiliare, questa volta Pechino ha scelto di puntare su una serie di settori innovativi, in particolare la produzione di veicoli elettrici, strumenti d’intelligenza artificiale e tecnologie sostenibili dal punto di vista ambientale, come i pannelli solari e le turbine eoliche.È un modello consolidato da decenni: privilegiare la produzione industriale su tutto il resto. Questa politica è spesso all’origine di forti tensioni commerciali, perché produce un enorme eccesso di beni che può essere assorbito solo con le esportazioni.

Oggi si parla spesso dei mercati occidentali invasi dalle automobili (elettriche e non) o dalle pale eoliche cinesi. Un altro esempio è l’acciaio: quest’anno la Cina dovrebbe esportare fino a centomila tonnellate di acciaio a basso costo, il dato più alto dal 2016, compensando il crollo della domanda interna provocato dalla crisi del settore immobiliare. La soluzione dei problemi di Pechino si scarica però sulle economie di altri paesi: è per questo che di recente il Messico, il Brasile e il Canada hanno aumentato i dazi sulle importazioni di acciaio cinese, e il Vietnam e la Turchia si apprestano a farlo. Anche la Corea del Sud, che secondo molti doveva approfittare delle tensioni tra la Cina e gli Stati Uniti, è in difficoltà a causa dell’arrivo di molti prodotti cinesi: dall’acciaio, ai derivati del petrolio, fino ai tessuti e ai cosmetici. Sono in affanno perfino i produttori sudcoreani di kimchi, un alimento considerato simbolo dell’identità nazionale: nei primi sei mesi del 2024 il paese ha importato più kimchi di quanto ne ha esportato, perché quello prodotto in Cina costa fino a sei volte di meno.

A questo punto viene da chiedersi perché Pechino insista con un modello che da un lato aumenta i contrasti commerciali con gli altri paesi e dall’altro penalizza i suoi cittadini. I fattori alla base della linea di Pechino sono vari, ma una risposta interessante arriva da un saggio scritto per la rivista statunitense Foreign Affairs da Zongyuan Zoe Liu, analista del Council on foreign relations. L’atteggiamento cinese non è frutto di “ignoranza o di valutazioni errate, ma riflette la tradizionale visione economica del Partito comunista”, scrive Liu. “Secondo Pechino, il consumo è una distrazione individualistica che minaccia di sottrarre risorse alla colonna portante del paese: la sua base industriale. L’ortodossia di partito sostiene che la forza economica nazionale deriva dai bassi consumi e dagli alti risparmi, che generano il capitale convogliato dalle banche di stato alle aziende manifatturiere”.

Ma c’è molto di più, aggiunge Liu: “Questo sistema garantisce la stabilità politica, cioè la presa del partito sulla società cinese, perché di fatto infiltra la gerarchia comunista in ogni ambito economico. Dal momento che l’enorme base industriale cinese dipende dai finanziamenti a basso costo assicurati dalla politica, le imprese sono legate mani e piedi a Pechino e si sottomettono agli interessi del partito”. Mentre in occidente “il denaro influenza la politica”, conclude Liu, “in Cina le cose funzionano al contrario: la politica influenza il denaro”.

Lo scontro tra Xi e la borsa cinese è un nuovo episodio della guerra all’economia privata. Il regime può tollerare che imprese e cittadini prosperino fino a quando non viene scalfita l’autorità assoluta del partito. D’altronde la crociata contro Alibaba era cominciata quando Jack Ma aveva accusato le autorità cinesi di avere una “mentalità da banco dei pegni”, contraria a qualsiasi processo d’innovazione. Xi, tuttavia, dovrà tener presente il crescente malcontento dei cinesi, scrive Lingling Wei, la corrispondente dalla Cina per il Wall Street Journal: “Il miracolo economico del paese asiatico è stato favorito anche dal diffuso ottimismo e dalla convinzione di molti cittadini che fallire era semplicemente la conseguenza di non aver lavorato abbastanza duramente”.

Oggi le cose non stanno più così. Almeno secondo i risultati di un sondaggio approfondito condotto su decine di migliaia di persone nel 2023 da Scott Rozelle, economista dell’università di Stanford, Martin King Whyte, sociologo dell’università di Harvard, e da vari ricercatori statunitensi e cinesi. Viene fuori l’immagine di una società pessimista sul futuro e sfiduciata nei confronti di un sistema considerato ingiusto, in cui ci si fa strada solo grazie alle conoscenze personali. Secondo gli autori dello studio, non siamo davanti a “un vulcano sociale in eruzione”, la stabilità politica non è in pericolo, ma è anche vero che il “contratto sociale implicito tra il popolo e il Partito comunista si sta in qualche modo logorando”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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