Il giorno in cui è partito il Piano nazionale garanzia giovani, il giorno dopo la pubblicazione degli ultimi dati Istat che confermano che il tasso di disoccupazione per i giovani tra i 15 e i 24 anni rimane altissimo (42,7 per cento), il giorno dedicato alla dignità del lavoro, ho visto un documentario bello ma triste al Festival del cinema europeo di Lecce, sul fenomeno dei laureati emigrati.
Si chiama Emergency exit: titolo azzeccato, perché la tesi della regista pugliese Brunella Filì è che la fuga dei talenti nella fascia dei ventenni non è una questione di giovani smidollati che, attratti dai guadagni facili, tradiscono la patria, ma soprattutto di persone che hanno provato più volte a trovare lavoro in Italia, senza successo o con offerte umilianti. È esemplare il caso di Patrizia Pierazzo, laureata in archeologia, che dopo due anni sprecati a fare la commessa in un negozio a Venezia trova lavoro a Londra come ricercatrice di archeologia urbana al Museum of London. Collaborazione cominciata come stage, ma presto tradotta in contratto a tempo indeterminato. A 33 anni, Patrizia era già senior archaeologist del museo (all’inizio avevo scritto “a soli 33 anni”, ma poi mi sono accorto che stavo ragionando all’italiana: non c’è niente di strano nel diventare capo archeologo a quell’età, è il sistema gerontocratico italiano a essere anomalo).
Quello che viene fuori dagli spaccati di vita dei giovani italiani che Filì ha catturato a Bergen, Vienna, Londra, Parigi, Tenerife e New York, è la sofferenza per essere stati, per così dire, cacciati da un paese che amano nonostante tutto. Come dice una delle intervistate, “nessuno se ne sarebbe andato via dall’Italia se non fosse stato costretto”. Beh, forse nessuno è un’esagerazione: gli italiani, come gli inglesi, sono un popolo di viaggiatori. Ma il concetto è chiaro: lo stato riesce a collocare solo il 3 per cento dei suoi giovani in cerca di lavoro contro il 45 per cento della Germania. E il numero di laureati “espulsi” ogni anno dall’Italia per la mancanza di meritocrazia e di sbocchi lavorativi supera di gran lunga il numero di immigrati clandestini arrivati in Italia e rimandati in patria.
Già le cifre ufficiali sono spaventose: tra il 2002 e il 2011, la percentuale di laureati italiani emigrati è passata dal 12,5 per cento al 27,6 per cento (non esistono statistiche sulla preparazione di quel 27,6 per cento, ma scommetterei che è al di sopra della media, visto che solo il fatto di andare all’estero comporta conoscenze linguistiche e organizzative, nonché una certa intraprendenza). Ma come dice nel documentario l’intervistato Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, le cifre ufficiali non riflettono la realtà: le istituzioni italiane all’estero o sottostimano l’entità del flusso, o non sanno proprio quanti italiani si trovano nel loro territorio di competenza.
Le statistiche diffuse da governo italiano e Istat quasi sempre si basano sull’Anagrafe italiani residenti all’estero (Aire). Ma anche se è un obbligo (almeno in teoria), molti emigrati scelgono di non iscriversi all’Aire. Un’idea dell’entità dell’emigrazione italiana sommersa deriva da
uno studio dell’istituto di ricerca West, che ha fatto un’operazione semplice usando dati accessibili a tutti. Ha confrontato il numero di italiani in Gran Bretagna che si sono iscritti all’Aire nel 2013 con quelli che nello stesso anno hanno fatto la richiesta per avere un National insurance number (Nino), l’equivalente britannico del codice fiscale che serve per lavorare. Il risultato? Aire: circa 28mila, Nino: 44.113. Nei tre anni precedenti il divario era ancora più ampio: i richiedenti Nino erano più del doppio degli iscritti all’Aire.
L’invasione italiana del Regno Unito è aumentata in modo costante dal 2002, ma il balzo tra il 2012 (26.605) e il 2013 (44.113) è impressionante. Ormai l’Italia è salita al terzo posto nella classifica dei paesi con maggiori flussi migratori verso Londra per motivi di lavoro, dopo la Polonia e la Spagna (e più dell’80 per cento dei nuovi immigrati italiani ha meno di 35 anni).
L’Italia ha spodestato perfino un paese del Commonwealth che per anni è stato il principale fornitore di immigrati nel Regno Unito: l’India. Tra il 2002 e il 2005, per ogni italiano che chiedeva il codice fiscale inglese c’erano tra i tre e i quattro indiani. Adesso ci sono tre italiani ogni due indiani. E siccome giocare con i numeri è divertente, ecco un altro dato sorprendente: ormai il numero di italiani che si trasferiscono in Gran Bretagna ogni anno supera il numero di albanesi e marocchini messi insieme che arrivano in Italia.
Come fa notare Emmott nel documentario, i flussi inversi sono irrisori. Nel 2012, solo 1.548 britannici si sono trasferiti in Italia. E siccome questi dati sono riferiti alla residenza, è lecito pensare che solo una parte di questi siano arrivati per motivi di lavoro. L’Istat non divide i numeri di immigrati di ogni paese per fascia d’età, ma dalla mia esperienza direi che l’età media del nuovo immigrato britannico in Italia è al di sopra dei cinquant’anni. Molti sono pensionati piuttosto benestanti, per loro il mercato del lavoro italiano non è richiamo principale.
Certo, la vita degli italiani all’estero non è tutta rose e fiori. Una ragazza di Bari racconta che a Vienna il proprietario di un appartamento che voleva affittare l’ha mandata via dicendo “non voglio problemi con la mafia”. E non tutti hanno trovato lavori da sogno: uno studente bolognese, Marco Lanza, vende pesce al mercato di Bergen, in Norvegia. Ma viene pagato bene, e si dice felice di vivere in un paese “in cui c’è un rapporto diretto tra quello che sai fare e quello che fai”.
Quello che traspare di più tra i 14 giovani emigrati di Emergency exit è un senso di sollievo misto a rabbia e nostalgia di casa. Sollievo perché all’età di 25, 27, 29 anni sono trattati da adulti, pagati il giusto, messi in condizioni economiche e sociali che gli permettono di comprare casa, fare figli, non rimanere eterni studenti fino a quarant’anni e passa. E rabbia perché vorrebbero avere la possibilità di fare queste cose in Italia. Come dice Martina, romana trapiantata a Bergen con il marito Walter, “abbiamo fatto tremila chilometri per avere una vita normale”.
Però a volte, nonostante tutti i disagi, il richiamo dell’Italia è troppo forte. Ho appena saputo che dopo le riprese del documentario Martina e Walter sono tornati a Roma, dove hanno aperto un bed&breakfast in zona Garbatella dal nome Take it easy (chissà quanta ironia c’è nella scelta nel nome che per molti stranieri riassume l’italian lifestyle).
Sto tifando per loro. Dovrebbe essere possibile avere una vita normale anche qua, no?
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