Cominciano spogliandoti di te stesso. Fanno di te un soggetto nudo, miserabile, disarmato, un soggetto in camice chirurgico, e ti mettono al polso una targhetta con il tuo nome, perché qualcuno, se necessario, sappia chi sei stato. Poi ti fanno delle domande che non sono domande, ma domandine: il mondo paramedico è una palude di diminutivi. Il tuo corpo diventa un posto a cui applicare un protocollo: no, questo va fatto così, lo dice il protocollo. Un posto senza bisogni specifici ma generali: lo dice il protocollo. Un posto dozzinale: un corpo che si trova in un luogo in cui si lavora sui corpi.
A quel punto ti preparano – ti rasano, ti pungono, ti intubano, ti spaventano – come dice il protocollo, e ti dicono di aspettare. Aspetti. Non sai cosa aspetti. Il potere medico, come ogni potere, si nutre dell’ignoranza.
“La facciamo entrare da un momento all’altro”, ti dicono guardando numeri e linee. Non ti guardano: guardano numeri e linee. Sei un fastidio tra i numeri e le linee e i metalli e le plastiche: adesso i posti per morire o per evitare di farlo sono sempre pulitissimi, tecnica pura, schermi, letti elettrici che qualcun altro ha usato per morire o evitare di farlo poco tempo prima. L’inferno oggi ferve di bip e luci verdi e macchine e macchine.
Il posto più tabù
“Questa è l’arteria circonflessa”, ti dirà poi il chirurgo indicando un ragno scuro sul grande schermo a raggi x della sala operatoria, e non penserai che in quel momento stai accedendo al posto più lontano, più recondito, più tabù al mondo: la parte interna del tuo corpo. Non ci penserai, chiaramente, perché sarai mezzo dopato, ma magari se ci pensassi non riusciresti a sopportarlo. È così strano guardarsi il cuore: miliardi di persone non hanno mai potuto guardarsi il cuore, sono morte senza averlo visto.
Vide il suo cuore vivo e pulsante un dottore tedesco di venticinque anni, Werner Forssmann, che nel 1929, come si faceva all’epoca, sperimentò su se stesso: si inserì un catetere in una vena del braccio e spinse fino a raggiungere la sua auricola destra. Quando pensò di essere arrivato salì le scale fino a radiologia, si guardò, confermò. Poco dopo lo cacciarono dal lavoro, diventò urologo e nazista.
Perdiamo così facilmente la capacità di ricordare che possiamo fare cose che qualche anno fa nemmeno desideravamo
La sua tecnica restò in vigore: per decine di anni fu usata per diagnosticare i problemi di circolazione. Poco più di quarant’anni fa un altro tedesco, Andreas Grüntzig, che si era dovuto trasferire in Svizzera perché nel suo paese non gli facevano fare esperimenti, riuscì a mettere in un’arteria un palloncino che si gonfiava e la apriva: fu l’inizio di un cambiamento radicale.
Fino a quel momento, un paziente con un’arteria occlusa moriva o gli aprivano il torace; dopo, l’operazione è diventata più semplice, meno cruenta. Lo stent, una rete che serve a mantenere aperta l’arteria, cominciò a essere usata trent’anni fa. Adesso lo chiamano angioplastica coronarica, perché i medici parlano un gergo pensato per non farsi capire, se ne fanno milioni ogni anno in tutto il mondo e ormai ci sembra quasi normale.
Ci sembrano normali molte cose: perdiamo così facilmente la capacità di ricordare che possiamo fare cose che qualche anno fa nemmeno desideravamo. A me piace mantenere questa consapevolezza: tenere a mente che è nuovo ciò che è nuovo.
Ma mi preoccupa questa possibilità di guardare la parte interna del nostro corpo. A volte penso che se potessimo assistere a quanto succede dentro di noi non saremmo più in grado di fare nulla: lo spettacolo sarebbe così affascinante, spaventoso e inesorabile per il suo unico spettatore interessato che non potrebbe distrarsi neanche un secondo. Che il fascino sarebbe completo: non ci sarebbe niente di più o di meglio nel mondo. Che per questa, come per tante altre cose, l’impossibilità è una condizione indispensabile. Che per adesso, avere la pelle ci salva.
(Traduzione di Francesca Rossetti)
Questo articolo è uscito su El País.
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