Il principio di indeterminazione di Heisenberg stabilisce che se due variabili sono coniugate, come la posizione e la velocità di un elettrone, è impossibile determinare sia l’una sia l’altra contemporaneamente. Per dirla più semplicemente: se cerco di sapere dove sia l’elettrone perdo di vista la sua velocità; se voglio sapere quanto è veloce non so più dove si trovi.

Il principio si può applicare a molti fenomeni che con la meccanica quantistica c’entrano poco. In un senso più ampio, ci dice che mentre cerchiamo la verità dobbiamo avere la consapevolezza dei nostri limiti, di ciò che possiamo o non possiamo determinare con certezza. E soprattutto ci ricorda che non siamo trasparenti: quando osserviamo un fenomeno, lo condizioniamo con la nostra presenza e la direzione del nostro sguardo.

Il modo in cui i mezzi d’informazione statunitensi si occupano delle elezioni presidenziali incarna questo meccanismo da decenni. In realtà è una tendenza che vale per qualsiasi momento politico decisivo, in presenza di un sistema giornalistico forte e di un’opinione pubblica attiva.

Gli Stati Uniti poi sono il paese dove questo fenomeno si esprime al massimo, vista la popolazione, la ricchezza, il sistema politico e la mole di notizie prodotte. I mezzi d’informazione statunitensi non raccontano le campagne presidenziali, ma le fanno letteralmente insieme alla politica, secondo una dinamica turbinante e poderosa in cui gli elementi in campo sono così tanti da diventare interessanti a priori. Per questo l’informazione è detta “quarto potere” e non “grande occhio”: l’informazione agisce, è parte della macchina democratica, non si limita a osservare.

Francesco Costa, vicedirettore del Post, ha realizzato una newsletter che dal giugno del 2015 sta seguendo il processo elettorale con un livello di dettaglio inedito per il giornalismo italiano. L’impulso deriva da una passione personale nata anni fa, complice la serie The west wing, splendido esempio di epica della politica creato da Aaron Sorkin nel 1999 e durato sette stagioni. Il successo della newsletter di Costa, accompagnata da un podcast e da una quarantina di incontri in tutta Italia davanti a un pubblico appassionato, testimonia la capacità del processo elettorale statunitense di suscitare un interesse quasi sportivo (se il divulgatore è bravo). E come nello sport, il risultato non è poi così importante: conta il gioco in sé.

I mezzi d’informazione stanno facendo di tutto per distrarre l’audience dalla prevedibilità del finale di questa storia, cioè la vittoria di Hillary Clinton

L’appuntamento con le elezioni presidenziali aumenta l’interesse del pubblico per la politica, e ogni editore degli Stati Uniti sposta forze e denaro in quella direzione. Per noi è difficile renderci conto di questo cambiamento di panorama, perché in Italia i politici sono sempre più visibili degli attori e dei cantanti. Ma, sia chiaro, quelli strani siamo noi. Ogni quattro anni, quando nei mezzi d’informazione statunitensi accanto al solito star system compaiono analisti, opinionisti e deputati, va scongiurata l’eventualità che il pubblico possa fuggire. Per questo giornali e tv stanno facendo di tutto per distrarre l’audience dalla assoluta prevedibilità del finale di questa storia, cioè la vittoria di Hillary Clinton.

Questa distorsione fisiologica della campagna elettorale è una forza che avvicina e scuote i candidati durante i mesi precedenti a novembre. Potremmo chiamarla la “sindrome del filo di lana”: se analizziamo un evento competitivo puntando una quantità enorme di occhi, faremo di tutto per raccontare una sfida aperta, un esito incerto e imprevedibile, anche se tutti i dati a nostra disposizione dicono che i giochi sono fatti. Lo faremo anche senza rendercene conto, cambiando l’aspetto e la natura degli elementi in gioco, per dare un senso alla nostra presenza e per avere qualcosa di interessante da dare al pubblico. D’altronde Werner Karl Heisenberg l’aveva detto, che il nostro sguardo altera ciò che osserviamo da vicino.

Sappiamo che Hillary Clinton è in vantaggio da prima che Trump sbagliasse tutto con la determinazione dei campioni. Già da questa estate, prima della dissociazione generalizzata di queste ultime settimane, esiste il tema dei candidati repubblicani che preferiscono non legarsi troppo a Trump per non trascinare giù il loro partito al congresso, che per la totalità della camera e un terzo del senato verrà eletto l’8 novembre insieme al presidente. Per di più è abbastanza chiaro che le elezioni si vincono al centro, e tutti sanno che Trump non è un candidato che piace al centro, anche se i suoi sostenitori sono così pittoreschi da sembrare numerosi.

Previsioni amplificate
Il sondaggista che meglio di tutti nelle ultime elezioni ha letto l’andamento del voto è Nate Silver, matematico nerd un tempo indipendente e titolare di un blog profetico, per un paio d’anni in quota New York Times, dal 2014 passato a Espn (lo sport letto con la statistica è una tendenza sempre più importante, come insegna Moneyball, libro e film). Secondo Silver e tutti i suoi colleghi più affidabili, Trump non ha mai avuto più probabilità di Clinton di vincere queste elezioni. A fine luglio per un istante si è avvicinato molto, ma solo perché c’era appena stato il congresso repubblicano e non ancora quello democratico. Va anche detto che l’umoralità dell’elettore statunitense è sempre molto funzionale a questa idea dell’improvviso ribaltamento di fronte, anche se tutti gli analisti sanno che quelle intenzioni di voto sono pareri espressi con una certa leggerezza da cittadini che conoscono il gioco dell’altalena.

Ogni movimento nei sondaggi viene poi ribattuto istantaneamente da infinite testate online, dai giornali di carta la mattina dopo, e diventa la base di altre innumerevoli considerazioni e sondaggi più o meno immaginifici. Questa amplificazione fisiologica delle minime inversioni di tendenza ha uno scopo diretto – quello di suscitare interesse – e uno indiretto – quello di sottoporre tutti i candidati a un test sotto sforzo continuo, esasperando ogni debolezza di chi sta vincendo ed esaltando ogni pregio dell’inseguitore. Ma anche a valle di tutto questo, comunque questa volta non c’è partita.

Jon Favreau, autore dei discorsi della prima campagna presidenziale di Obama, ha scritto questo articolo nel momento di massimo vantaggio di Hillary Clinton, subito dopo il congresso democratico, per avvertire del fatto che di lì a poco i mezzi d’informazione avrebbero raccontato la rimonta di Trump. Nell’articolo Favreau rassicura i democratici: dopo la rimonta annunciata e spinta con entusiasmo, i fatti torneranno a essere più rilevanti del racconto, stiamo calmi, Clinton tornerà a salire, è tutto normale. Inutile dire che la previsione si è avverata puntualmente. D’altronde il desiderio di raccontare un movimento è connaturato sia alla stampa che alla narrativa. Se non succede niente, cosa racconti?

La storia della copertura mediatica delle elezioni statunitensi mostra chiaramente che gli scontri funzionano in sé

Qualche settimana fa i due candidati sono stati ospiti di Jimmy Fallon nel suo programma serale di interviste, comicità e musica. Essendo ormai chiuso il Daily Show di Jon Stewart, che fino all’anno scorso ha incarnato una linea più strettamente politica di questa forma televisiva classica statunitense, da Fallon i due sono stati intervistati in un contesto leggero. Il programma è newyorkese e liberal nell’impostazione, così come il Saturday night live da cui è uscito Fallon, ma il trattamento dei due candidati è stato improntato a perseguire prima di tutto una strategia narrativa, e cioè andare contro il luogo comune e generare un imprevisto che faccia almeno alzare un sopracciglio.

E allora Trump si è preso una bonaria stropicciata di chioma dal conduttore, cosa che lo ha reso quasi simpatico e ha scatenato la furia di molti spettatori democratici; Clinton è stata salutata con una mascherina e del disinfettante per le mani, con riferimento alla sua recente indisposizione. Tra l’altro in seguito a questa polmonite e al piccolo mancamento sotto il sole della cerimonia in onore delle vittime dell’11 settembre, è stata prodotta una quantità di ipotesi fantasiose sulla salute della candidata. Se morisse durante la campagna? Il giorno delle elezioni? Una settimana dopo? Cosa succederebbe? Cosa prevede il protocollo? È mai successo prima? Dopo tre giorni Hillary stava meglio.

Durante un comizio di Hillary Clinton a Columbus, Ohio, il 10 ottobre 2016. (Ty Wright, Bloomberg/Getty Images)

La storia della copertura mediatica delle elezioni statunitensi mostra chiaramente che gli scontri funzionano in sé. Forti dello spirito agonistico nazionale, in genere opinionisti e commentatori riproducono l’opposizione tra i candidati e danno luogo a infiniti dibattiti radiofonici e televisivi. Questa tradizione è esplosa durante il congresso democratico del 1968, quando la scalpitante Abc ingaggiò per commentarlo Gore Vidal e William F. Buckley, due intellettuali colti e narcisi, esponenti rispettivamente della sinistra movimentista e della più granitica difesa della ragion di stato.

Il documentario di Netflix Best of enemies racconta la sfida che fece della piccola Abc un network all’altezza di Cbs e Nbc, e mostrò il valore di un commento infuocato anche se marginale. Capaci di finezze dialettiche e attacchi personali violentissimi, muniti di accenti aristocratici che per il pubblico risultavano autorevoli e insieme buffi, in realtà sia Vidal sia Buckley rappresentavano più se stessi che la politica americana, ma al pubblico piaceva vederli mentre si scannavano.

I vecchi schemi sono saltati
Durante la campagna elettorale del 2012, quella in cui si contrapponevano Mitt Romney e Barack Obama, i dibattiti erano numerosi e ben posizionati, con una collocazione chiara che vedeva Msnbc decisamente a sinistra, Fox a destra, gli altri nel mezzo. Quest’anno è tutto diverso: le contrapposizioni frontali funzionano poco perché la compagine conservatrice è piena di dissociati, mentre i sostenitori più convinti di Trump faticano a risultare credibili nel seguire i temi di una campagna scriteriata. Il vecchio schema insomma è saltato. Solo i confronti diretti tra Hillary e Donald in persona concentrano grande interesse perché funzionano in sé: lo scontro di due mondi talmente diversi da svincolarsi del tutto dalla realtà delle candidature, per diventare sia un tafferuglio allo zoo sia un banco di prova della nuova presidente.

Non è un caso che il documentario settimanale prodotto da Showtime e Bloomberg Politics realizzato durante le primarie si chiamasse The circus: inside the greatest political show on earth. The circus seguiva i candidati nella loro peregrinazione tra un comizio in salotto e un discorso nella palestra del liceo, con commenti di consulenti elettorali e analisti politici al seguito. Questa campagna presidenziale è stata una delle più assurde di sempre perché, se la seconda fase è stata caratterizzata dall’assenza di uno dei due avversari, la prima era talmente affollata da ottenere lo stesso effetto di incomprensibilità. I candidati sul fronte repubblicano erano 12, mentre i democratici avevano Bernie Sanders e Clinton. Con un totale di 14 persone che devono diventare due, è evidente che il fulcro della questione non fossero le sfumature, ma il fascino della sfida infernale: una via di mezzo tra Non si uccidono così anche i cavalli?, Dieci piccoli indiani e un reality show.

Quello delle elezioni statunitensi è il processo politico più analizzato e raccontato in assoluto, e quest’anno ha dimostrato di non avere bisogno di una competizione dall’esito incerto per stare in piedi. Per evitare di raccontare un risultato noto a una società che stravede per l’agonismo, i mezzi di informazione si sono smarcati dalla prospettiva dell’8 novembre in tutte le direzioni possibili. La più creativa è stata la fantascienza catastrofica sulla vittoria di Trump, che va dal tono divertito dei comici a quello preoccupato dei pessimisti; poi c’è il racconto del protocollo e della storia elettorale, che si sposa benissimo con le liste di curiosità amate dalla rete; infine c’è il tentativo di dare corpo ai dubbi più peregrini su Hillary Clinton, visto che prima o poi di quello si parlerà.

È stata poi la magnitudine degli scandali sessuali che hanno investito Trump negli ultimi dieci giorni a fornire una linea narrativa sufficiente per avere ulteriori argomenti interessanti anche al di là della sfida. È anche possibile che a questo punto non si esca più dall’arco narrativo del crollo di Donald Trump, a patto che le rivelazioni continue e i tentativi sempre più goffi di smarcarsi continuino con questa intensità. È comunque possibile che all’approssimarsi del voto si manifesti timidamente un altro po’ di sindrome del filo di lana, forse nemmeno troppo convinta, e ci raccontino che le cose sono più in bilico di quello che sembra. Ma tutti sanno che vincerà Clinton, e suggerire il contrario sta diventando sempre di più una menzogna pura più che una manifestazione di prudenza o un punto di vista minoritario.

In sostanza la sfida del “più grande spettacolo politico del mondo” questa volta non è stata tra repubblicani e democratici, ma quasi sempre tra il racconto delle elezioni e le foto dei gattini. E hanno vinto le elezioni, intese come macchina mediatica e narrativa capace di fare un buon film con qualsiasi tema. Vista così, la disfatta di un partito e del suo improponibile candidato mostro, contro la prima donna a governare un paese di 325 milioni di persone, non è un brutto soggetto.

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