L’Italia vive il suo momento più buio dal 1945. Il paese sembra sprofondato in una crisi senza uscita. La recessione dura ormai da più di tre anni e, quel che è peggio, non c’è nessun segno che possa trasformarsi di nuovo in una crescita sostenuta. Potremmo anche dire: l’Italia si trova tra Scilla e Cariddi, e come gli antichi navigatori deve affrontare due mostri allo stesso tempo.
Il primo, Scilla, è rappresentato dalle politiche del rigore imposte da Bruxelles e dalla Germania di Angela Merkel. Per aggiustare deficit e debito l’Italia ha dovuto seguire una politica dagli effetti pesantemente recessivi. Le conseguenze erano state previste da qualche avveduto economista già tre anni fa: quell’“aggiustamento” ha portato il paese in una spirale di deflazione e recessione. Nel migliore dei casi, se non ci sarà una correzione di rotta, ci attende una lunga fase di stagnazione.
Purtroppo da questo orecchio la Germania non ci sente. L’ortodossia contabile la fa da padrona a Berlino. Molti esperti notano che anche la Germania avrebbe urgente bisogno di massicci investimenti nelle infrastrutture, e che servirebbero forti stimoli ai consumi per dare nuova linfa all’economia europea. Ma a Berlino si beano del fatto di avere “finalmente” raggiunto il pareggio di bilancio e di poter presentare per il 2015 un bilancio a deficit zero.
Fanno bene Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan a mettere in dubbio la sensatezza di questo approccio. Ma per ora hanno ottenuto ben poco, anche se fanno credere di avere imposto una svolta. C’è da dubitarne: pochi giorni fa l’Eurogruppo ha stabilito che nel 2015 l’Italia dovrà ridurre il suo deficit di un altro 0,4 per cento.
Ma oltre allo Scilla del rigore, l’Italia deve affrontare anche l’altro mostro, Cariddi. Solo che questo mostro ce l’ha in casa: è l’Italia stessa. Non vogliamo ripetere il ritornello delle “riforme strutturali”, a cominciare da quelle del mercato del lavoro senza le quali non ci sarebbe via d’uscita. Non è infatti pensabile nessuna via d’uscita finché assistiamo a enormi scandali come quello di Mafia Capitale, come quello del Mose di Venezia, come quello dell’Expo di Milano.
Questi scandali ci raccontano che gli interventi pubblici non sono pensati per risolvere problemi sociali come quello dei rom o per migliorare il paese dotandolo di infrastrutture che aumentino la competitività dell’Italia. A Roma si sono spesi milioni e milioni, non “per” i rom o i rifugiati, ma – con il pretesto di rom e immigrati, che nel frattempo continuano a vivere in condizioni disumane – per fare cassa, per dividere il bottino tra mafie, politici e imprenditori. Decine di milioni di euro di soldi pubblici si sono volatilizzati, mentre le “emergenze” restano.
Lo stesso discorso vale per le infrastrutture. È immenso il sovrapprezzo che l’Italia paga grazie alla corruzione pervasiva, quella sovrattassa implicita necessaria per creare il bottino da dividere tra politici e imprenditori. E, al di là dei singoli episodi di corruzione, si forma una classe di politici ed amministratori “distratti”, ai quali interessa ben poco se un’opera pubblica viene eseguita bene e senza sprechi.
Un esempio su tutti: la nuova linea B1 della metropolitana di Roma, le cui stazioni sono un raro esempio di bruttezza e sciatteria. Non ho nessun indizio per affermare che ci siano di mezzo delle tangenti, ma quando vado alla fermata di piazza Annibaliano mi colpisce la torre dell’ascensore che, rivestita da brutti pannelli grigiastri, copre la vista dell’antica basilica di santa Costanza e quando scendo al binario il mio sguardo non trova altro che uno sconfortante muro grigio mentre attendo il treno.
Opere carissime e fatte male, miliardi spariti nei canali dell’illegalità: è questo il più grande fardello di un paese sempre più grigio, che si concede il lusso di sprecare quelle risorse che non ha più. È da qui che deve cominciare qualsiasi seria “riforma strutturale”.
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