Di solito è considerato uno dei deprimenti paradossi della natura umana il fatto che sia più facile immedesimarsi nelle sofferenze di una persona singola che non di migliaia di loro – probabilmente Stalin non ha mai detto davvero “Una morte è una tragedia, un milione di morti è una statistica”, ma se lo avesse detto non avrebbe avuto torto. E a pensarci bene, non è proprio un paradosso.
Un senso ce l’ha: ognuno di noi ha accesso solo a una serie di pensieri e di emozioni, le proprie, perciò siamo obbligati a entrare in relazione con gli altri per analogia, partendo dal presupposto che provino la gioia e il dolore come noi (come amano dire alcuni filosofi, non possiamo essere certi che i nostri amici e familiari non siano solo robot rivestiti di carne, senza nessuna vita interiore). Ed è ovviamente più facile tracciare un’analogia tra noi e un’altra persona che tra noi e “il popolo somalo” o “tutte le vittime della violenza domestica”, per non parlare di quelli che moriranno in futuro a causa del riscaldamento globale, e forse non sono ancora nati.
Nel migliore dei casi, l’empatia richiede una certa ginnastica mentale. Quella per intere categorie di persone richiede capacità di livello olimpico, che la maggior parte di noi non ha.
Lo spostamento che fa la differenza
Ma, secondo un nuovo studio condotto dallo psicologo Kurt Gray e dai suoi colleghi, pubblicato sul Journal of Experimental Psychology e riportato dal sito di notizie Vox, c’è un modo facile per suscitare la compassione nei confronti di un gruppo.
I ricercatori hanno infatti scoperto che dire “un gruppo di 50 profughi” o “50 profughi in gruppo” fa differenza. La prima espressione mette l’accento sul gruppo e non sui suoi componenti, facendoci pensare che quelle persone non abbiano una ricca esperienza interiore e quindi, ammettiamolo, siano meno umane di noi. La seconda formulazione, invece, mette l’accento sulle persone che compongono il gruppo. Questa inversione linguistica è stata sufficiente a fare sì che i partecipanti allo studio considerassero i singoli come esseri umani, e quindi degni di compassione.
Certi sentimenti nascono per l’incapacità di immaginare la vita interiore degli altri
Con ricerche come queste c’è sempre il rischio di concludere che il problema – in questo caso il fatto che alcune persone considerano meno umani altri gruppi di persone – sia semplicemente linguistico. Basta cambiare il modo di parlare e il razzismo, l’intolleranza e il nazionalismo scompariranno! In realtà, l’aspetto linguistico ci aiuta semplicemente a capire perché nascono certi sentimenti: per l’incapacità di immaginare la vita interiore degli altri.
Ma anche questo può essere motivo di ottimismo. Dopotutto, non sarebbe peggio se le persone fossero razziste perché hanno immaginato la vita emotiva delle altre razze e continuassero a non interessarsi del fatto che sono trattate ingiustamente? Se invece pensiamo che il razzismo sia dovuto a una incapacità di immaginare, significa che certe persone non sono insensibili ma che in qualche modo sbagliano. E quindi c’è almeno una possibilità di correggere quell’errore.
Questo ci ricorda anche che i pregiudizi non sono necessariamente il prodotto di una cattiveria d’animo tipica di alcune persone. Tutti siamo costretti a trovare un’analogia tra la nostra vita interiore e quella degli altri, e potenzialmente tutti potremmo sbagliare. Quindi non si tratta tanto di odiare altri esseri umani, quanto di non rendersi del tutto conto che sono altri esseri umani.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it