1. Gov’t Mule, Broke down on the brazos

Arieccolo, ‘o blues. Quello artigianale, con il Texas fuori, le bottiglie di birra dentro e sul palco del roadhouse un trio di veterani: il chitarrista della Allman Brothers Band, Warren Haynes, e i suoi: basso e batteria e pedalare. Rockaccio viscerale, suonato come si faceva una volta: sudore, scale, assoli incrociati, il groove che sfugge all’arresto. Un’impresa da vecchi leoni, e un album (By a thread) appeso a un filo, sulla frontiera tra Usa e Messico, in un mondo vecchio rivisitato con energie nuove, sperando di farsi avvistare da tante pattuglie di appassionati.

2. Blackroc feat. Mos Def, On the vista

I Black Keys, due uomini-rana dell’Ohio che ricostruiscono il blues in garage, hanno pensato, già che c’erano, di rivitalizzare anche l’hip hop. Così tirano fuori il side project Blakroc, sgangherato quanto basta per essere interessante, come una Chevy Camaro nera piena di rapper (Ludacris, Rza, Raekwon). Fare un giro con loro è spassoso: non hanno speranze di sorpassare a destra le collaborazioni rock/rap più azzeccate, ma compiono evoluzioni interessanti, derapage spettacolari tra stili stonati e sgommate in marcia retrò.

**3. Blk Jks,* Skeleton***

Comincia ancestrale, in punta di bassi, come un dubbioso dub africano, poi si aggancia a un coro grandiloquente, attraversa una savana di rumori, cori e colori, esplode in passaggi progressive noise stile Mars Volta e si accascia all’angolo di un ghetto di Johannes­burg. Nel loro album After robots, questi imprevedibili sudafricani cantano in inglese, zulu, xhosa, suonano un misto di alt.rock, house africana e ritmi caraibici, con piroette geniali e inevitabili capitomboli. Un safari ancora incompiuto, all’inseguimento di impronte di grandezza.

Internazionale, numero 824, 4 dicembre 2009

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