1. Imogen Heap, Cycle song

Un trekking in Bhutan raccogliendo tutti i suoni che ne conseguono: gli yak, il tiro con l’arco, i passi nella neve, le preghiere dei monaci e un sacco di campanelle. È una delle tante storie dal mondo che la cantante raccoglie nel suo nuovo album Sparks, realizzato in crowdsourcing con suoni inviati dai fan, suoni sponsorizzati, suoni testimonianza, e decine di vocine sue sovraincise, con un tocco che ricorda un poco il Peter Gabriel dei bei tempi, e anche gli azzeccati collage sonori di Matthew Herbert per tutto un mondo di ricicli e tricicli.

2. Ólöf Arnalds, Patience

E intanto, in un’altra regione del medesimo territorio di yak, yogurt, elfi, ghiacciai e polifonie iterative, riecco una nipotina di Björk (passaporto islandese a sua volta, la voce meno spigolosa, un approccio soft living e una formazione da cellista) che intinge le sue linde corde vocali nel pop elettronico e molto tattile di Palme, nuovo album che la vede interagire in studio con colleghi molto hipster di nome Gunnar, e insomma ne esce tutta una psichedelica dolcezza da trasognato brunch all’Hangar Bicocca, ma con quella pace interiore del grande nord.

3. Raury, God’s whisper

Era lì, imboscato nei titoli di coda di Lucy di Luc Besson dopo la canzone di Damon Albarn, quasi un premio per chi non si stufa a vedere tutti i nomi, tutta questa gente da mettere a borderò, il catering di Taipei e il parrucchieri di Parigi. Ma questo è un 17enne disarmante black folker di Atlanta che sente il sussurro di Dio: “facendo delle opere belle, buone e generose”, per dirla con Giovanni Segantini, ciascuno di noi può attingere a qualcosa di divino dentro di sé. Questa canzone in fondo ai titoli di coda comunica lo stesso concetto. Mica male.

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