Milano, studio di registrazione Pinaxa, primi di novembre. Fuori è un brumoso sabato autunnale. Dentro – tra il legno e il cuoio di mobili e arredamenti – Jovanotti guida un manipolo di addetti ai lavori all’ascolto di alcuni pezzi del suo nuovo album, Oh, Vita!, che esce il 1 dicembre. L’artista gongola per il “Wiki di Ricky”, e cioè per il fatto che sulla pagina Wikipedia di Rick Rubin il suo nome sia appena comparso in coda all’elenco degli artisti prodotti dal guru americano di tanti classiconi (dall’invenzione dei Beastie Boys alla reinvenzione di Johnny Cash), che ha accettato di curare anche Oh, Vita!

Rubin ha benedetto via web i ritocchi in extremis all’album. Vive in California, ma ha trascorso l’intero agosto con Jovanotti nella villa Le Rose all’Impruneta, a sud di Firenze. La proprietà dei Ferragamo era stata affittata per poi essere adattata a studio dove registrare questo album di 14 tracce, selezionate tra 20 canzoni presentate dall’artista in versione “demo”.

C’è abbastanza blablabla su questo Rubin, che per gli addetti ai lavori è un po’ come Mourinho per gli interisti o, più o meno, come Madre Teresa per i cattolici. Ergo, ci si palleggia un po’ di aneddotica spicciola. Rick è arrivato da Capri in elicottero, Jovanotti ha assoldato uno chef personale: “Aveva senso, stavamo sempre chiusi in casa, tranne quando andavamo in giro con la macchina per ascoltare i pezzi sul car stereo”, racconta.

L’album è stato mixato a Malibu, i riferimenti preferiti di Rubin sono i classici: Bob Dylan, Stevie Wonder, i Beatles del White album e di Abbey Road. Poi Pino Pischetola, padrone di casa nello studio in cui ci troviamo, nonché tecnico del suono di fiducia di Jovanotti (con un curriculum pazzesco che va da Celentano ai Depeche Mode), ha curato il missaggio definitivo di molte tracce con la benedizione del guru.

“Il disco ha due anime: una più ritmica e una melodica, di songwriting, per la quale abbiamo lavorato a sottrarre tutto il non essenziale”, premette Jovanotti. “Il risultato è un album meno pop, anomalo, strano”. Ma con qualche legittima ambizione da classico.

È ora di passarne in rassegna gli highlight, ossia i brani selezionati dall’artista in persona per questo ascolto guidato.

Intro: Paura di niente

Strade e sentieri che costeggiano Francesco De Gregori, anche se il titolo può essere letto come un ribaltamento di Luciano Ligabue. Si orecchiano “tensioni di fondo” e “cose brutte dal mondo”, frasi come “scambiare due parole con il mio torturatore”, però poi alla fine è una canzone d’amore, sul conforto e sulla protezione: “Ho sentito il tuo respiro dentro il mio, e sono stato felice”.

Registrato “alla vecchia”, quasi come una demo, voce e chitarra che sembrano buttate lì ma, spiega Jovanotti, “è il risultato di oltre 40 take che abbiamo fatto, senza tagli, senza mixare una parte di qua e una di là, e senza click track (ossia il metronomo digitale generalmente usato come base per le incisioni)… Sessioni fino a mezzanotte e poi Rubin che ascolta e fa: sono buone la versione sette e la tredici, teniamole da parte”. Una volta Rubin ha detto di Tom Petty: “Abbiamo registrato il disco in due giorni, ma ci ha messo due anni per farlo suonare così”. E comunque, il mantra rubiniano per l’intera operazione è stato: “Let’s make it sound like a record (facciamo in modo che suoni come un disco vero)”.

Segue il pezzo di apertura, nonché singolo, nonché videoclip.

Oh, Vita!

La clip in bianco e nero inquadra al contempo lo spirito della canzone, e la Heimat, la Roma jovanottiana: via delle mura Aureliane, porta Cavalleggeri, il cupolone sullo sfondo, il mercato, il quartiere romano dov’è cresciuto e ha tenuto casa – “Se l’è ripresa di recente il Vaticano”, dice senza troppi rimpianti – e che “rap-presenta” il suo mondo, la sua vita.

Un ritorno alle origini più hip hop, con tutta la dimensione retrospettiva di un ragazzo del 1966. Gioioso con qualche sottotono struggente, qualche riferimento alto-basso (”Aracataca/ Gabo. Marquez/ Valentino Rossi” is the new “Che Guevara e Madre Teresa”), un ritmo contagioso che sfocia con flow naturale nel grande delta del manifesto poetico jovanottiano.

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Un pensiero positivo al naturale, con piena convinzione tanto dei propri mezzi quanto della propria fortuna: “Come posso io/ non celebrarti, vita?”. In un mare di citazioni e di scampoli autobiografici, un campionamento-omaggio al Lucio Dalla di Futura. “Grandmaster Jova” (scritta hip hop su un suo giubbotto che compare nel video) dopo tutti questi anni (”la prima paga da dj il 4 luglio del 1982”) si sente bene in compagnia dei classici della canzone italiana.

Sbagliato

Altra ballad, chitarre e ritmo andante che celebra “il triste primato di essere l’uomo più innamorato del mondo” e sfocia in un vago Sudamerica di matrice romantica e acustica, trasportando sotto a un cielo stellato “una musica giusta in un mondo sbagliato”.

Un Lorenzo baciato, dalla fortuna e nella rima, sì, ma efficace quanto mai e genuino e di nuovo intimista, che si rivolge alla sua Violeta (affettuoso alias per la moglie, Francesca) e che – come tiene a sottolineare – suona “per la prima volta” la chitarra in un disco, e la fa suonare bene.

Dopo cotanto languore, Jovanotti alza l’asticella: “Ecco, adesso c’è la canzone romantica”.

Chiaro di luna

Ebbene sì, è un’altra ballata d’amore, una canzone da momento “display luminosi” (ex accendini) al concerto, ballo lento, lovefest jovanottiano nella scia di A te, molto sentito e anche paraculo quanto basta. Dove “non c’è cosa bella dove tu non c’entri” is the new “tu sei/sostanza dei giorni miei”, ed è una sostanza più sensuale del solito: “Non esiste paesaggio più bello della tua schiena”, tranne forse “quando apri la finestra dei tuoi seni”.

Jovanotti a Roma. (Michele Lugaresi)

Sostiene Lorenzo di non fare mai dischi pensando al tour, ma intanto questa si annuncia come climax da concerto, e lui – lo ribadisce – s’è pure esercitato molto alla chitarra acustica: “Allo Shangri-La (leggendario studio a Malibu, oggi di Rick Rubin, ndr) ho chiesto se avevano qualche chitarra, mi hanno aperto un deposito impressionante, e mi hanno messo in mano una Martin del 1962 che costerà come un suv”. E anche se non presume essere un virtuoso delle sei corde, Jovanotti dice “so far bene quattro accordi, ma ho il groove giusto”… Il che ci porta a un’altra canzone-clou.

In Italia

Italia sì, Italia no? “Sì, Francesca è da 22 anni che me lo diceva: ma non fai mai un pezzo, sull’Italia? Stavolta mi è venuto. A metà strada tra i miei riferimenti assoluti, che sono L’italiano di Toto Cotugno, e Viva l’Italia di Francesco De Gregori”. Potrebbe sembrare anche una scelta postdemocristiana, se non fosse che è il pezzo che suona meno italiano di tutti. Pulsa di una collosa, metallica ritmica afrobeat: tanti fiati, voce spudoratamente distorta dall’autotune, la batteria di Tony Allen.

Il sound sembrerebbe quasi rubato a un mixtape danzereccio di Lagos, ma è invece un afrobeat saldamente jovanottiano, con istinto equilibrista tra immagini alto/basse, fuorionda e baraonda, “futuro con accento straniero”, citazioni da Tony Dallara e da Eros Ramazzotti, e mamma mia e campioni del mondo e gente che studia e lotta e lavora e “ripudia la guerra”, ma anche “w la figa/si scopa e si prega”. Fantastico centrifugone, che poi prelude a un ulteriore colpaccio che fa: sbam!

Sbam!

“Tutto cambia in un secondo, sono pronto”. La ritmica più originale tra quelle ascoltate in anteprima, vive di cambi di ritmo superbamente mixati tra tempesta elettronica e un dancehall reggae/dub Kingston style, a cura degli Ackeejuice Rockers, supergiamaicani di Bassano del Grappa: una di quelle realtà che Jovanotti sa pescare e coinvolgere nelle sue cose, per stare al passo con i suoi di oggi, nel tipico matrimonio d’interessi di cui si nutre il pop (cfr. Madonna). Perché lui è “carne sangue cellulare macchina per musica”, ed è pronto a cambiare, e a stare sempre una spanna avanti, e sbam!

Una chiosa

Parola ancora a Jovanotti: “Come tutti gli anni ero davanti alla tv a guardare il festival di Sanremo, e mi è venuto di pensare: qui almeno otto pezzi sono figli miei, nel modo in cui sono scritti. Uno ricorda Mi fido di te, uno Fango… Mi riconosco, alla fine, un merito: aver portato innovazione nel linguaggio”.

Il che lo potrebbe anche indurre a rimaneggiare comodamente le sue formule – cosa che in effetti fa, ma (forse grazie alla mistica rickrubiniana) con un grado di faticata, disinvolta eccellenza che forse non aveva ancora raggiunto. Eppure, ecco, rimane sempre lui in questo album: il Jovanotti che ti aspetti, quello di tutta la (oh) vita, ma anche (ancora) con uno scarto in più, un guizzo, un mezzo sbam!

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