1. Yes, Siberian Khatru
Strane creature mitologiche, questi britanni eterni progressive di cui ricorderemo sempre le copertine fantasy di Roger Dean, i virtuosismi strumentali, la voce eterea del cantante Jon Anderson e le fascinose lungaggini (e quella volta che, in una delle formazioni più strampalate, ribaltarono certezze con un successo planetario, Owner of a lonely heart). L’uccellaccio siberiano torna due volte: nel loro nuovo Live in Las Vegas, antologia dei loro classici sopravvissuti, e nelle bozze di un romanzo (di Riccardo Pro) in uscita a dicembre. Sarà un presagio?
2. Post nebbia, La mia bolla
“Abbandonarsi interamente alla percezione è un modo facile di vivere per me”. Carlo Corbellini, ventenne artefice di questa band al secondo album, Canale paesaggi, traccia linee ideali da Telepadova 7 Gold al Vietnam passando per i Mgmt prima maniera, le ansie del presente, frattaglie elettroniche dall’etere, piccoli e collosi ganci di sintetizzatore che sembrano ripresi da colonne sonore di thriller scollacciati degli anni ottanta. È una forma di foraging, a scopo artigianale: se bolla autoreferenziale dev’essere, che sia fatta in casa.
3. The end, Allt är intet
In norvegese, “tutto è nulla”; nulla di più appropriatamente apocalittico, sia come nome di band sia come titolo del pezzo, così come di uno degli album più fascinosi e sfidanti di questo finale di (durissima) partita 2020. Autoscontri di sassofoni, un rotolare cacofonico nel free jazz, tra brutalismo blues e ornamenti di folk (l’accompagnamento di langeleik, come una cetra in scatola), ritmi selvaggi e la voce incantata dell’etiope-svedese Sofia Jernberg, e un’aria di cupio dissolvi come quella che ormai avvolge questa rubrica, giunta al suo epilogo.
Questo articolo è uscito sul numero 1384 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati
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