Robert Eggers è un regista di 33 anni che con il suo film di debutto, The witch, di cui ha scritto anche la sceneggiatura, ha vinto un premio per la regia drammatica al Sundance film festival del 2015. Eggers ha avuto una bellissima idea. Ha raccolto un po’ di fiabe e leggende sulle streghe del New England (argomento che lo ha sempre appassionato, fin da bambino) e sulla loro base ha (faticosamente) costruito una sceneggiatura originale, essenziale, efficace, al limite tra film di genere (horror) e film d’autore. Può far pensare all’operazione garroniana Racconto dei racconti, ma l’approccio, le scelte e i risultati sono lontani anni luce. Anche se con ritardo, The witch. A New England folktale arriva nelle nostre sale.

Sarebbe un grave errore liquidarlo come un horror stagionale. Non ho niente contro gli horror stagionali, anzi. Ma The witch è, come detto, al limite tra film di genere e film d’autore. La trama. Nel New England del seicento la famiglia di William è messa al bando dall’insediamento rurale in cui è arrivata dopo aver attraversato l’oceano per allontanarsi dalla corrotta e impura Europa. A William non resta che trovare un pezzo di terra da coltivare per sostenere la moglie Katherine (incinta) e gli altri quattro figli, Thomasin, la più grande, Caleb, che è quasi un ometto, e due gemellini che sembrano usciti da un quadro di Pieter Bruegel (il vecchio).

The witch

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Una volta fuori della colonia William costruisce una fattoria, proprio al limitare di un bosco impenetrabile, mentre la moglie dà alla luce il quinto figlio, Samuel. Quando Samuel scompare misteriosamente le convinzioni religiose di William e Katherine cominciano a fare brutti scherzi. Katherine si convince che il diavolo si sia impadronito dell’anima di Thomasin e sappiamo tutti che togliere un’idea del genere dalla testa di un puritano del seicento non è un affare da poco. La fede si scontra con una natura ostile, difficile da dominare soprattutto per chi si affida alla superstizione. Situazione ideale perché il diavolo ci metta davvero la coda (o le corna).

Il diritto di uccidere

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Il diritto di uccidere di Gavin Hood è un film sulla guerra nel tempo del terrorismo, dei droni, delle regole d’ingaggio e della propaganda che viaggia sui social network. Niente azioni eroiche, sergenti maggiori burberi né Robert Mitchum con il sigaro che guida lo sbarco a Omaha Beach quindi. Il generale stavolta è un compassato Alan Rickman alle prese con un comitato etico (e un regalo di compleanno sbagliato). Il colonnello è Helen Mirren che vuole a tutti i costi fermare una donna britannica che si è unita ai terroristi di Al Shabaab. Il pilota, infine, è Aaron Paul che sta in una base dove si telecomandano i droni, dalle parti di Las Vegas. L’operazione si snoda quindi tra Londra (dove si trovano sia il generale, nella war room, sia il colonnello, nella base di Northwood), Nairobi dove ci sono gli obiettivi dell’attacco e il Nevada.

Sono due gli aspetti interessanti esplorati dal Diritto di uccidere: la tecnologia, che permette di individuare e seguire gli obiettivi anche senza entrare mai nel loro campo visivo (inevitabile chiedersi se lo scarabeo dotato di videocamera esiste o è una roba da James Bond), e l’apparato politico-giuridico, che legittima azioni discutibili (come un attacco condotto con i droni in un territorio che tecnicamente non è una zona di guerra) e prevede un severo rispetto della catena di comando, soprattutto se nessuno vuole prendersi in pieno la responsabilità delle stesse discutibili azioni.

Ma c’è anche l’aspetto dello spazio. Da una parte, man mano che si sale nella catena di comando, ci si allontana sempre di più dall’azione, dai dettagli sulle conseguenze che quell’azione può comportare, dalle persone che ne resteranno colpite. Rasenta il comico il momento in cui una decisione da prendere arriva molto in alto, a un ministro della difesa britannico che ha problemi intestinali e a un segretario di stato americano che interrompe malvolentieri una partita di ping-pong. Ai livelli più bassi della stessa catena, tra gli esecutori, ci possono essere distanze siderali ma curiosamente scrupoli comuni. In mezzo un balletto di burocrati, civili e militari.

Per il modo in cui affronta la guerra e la politica, il film mi ha fatto pensare a La guerra di Charlie Wilson, un’altra pellicola in cui abbiamo imparato qualcosa su come si combatte nel mondo moderno. Notevole il cast in cui, oltre al compianto Alan Rickman (al suo ultimo film), a Mirren e a Paul, c’è anche Barkhad Abdi (il “pirata” di Captain Phillips, a Nairobi).

Ma loute

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Ma loute di Bruno Dumont è una farsa in costume ambientata nel 1910 in una baia nei pressi di Calais, nel nord della Francia. Per baia s’intende una zona la cui geografia varia a seconda delle maree, tra infiniti acquitrini e dune sabbiose, dominata da una collina boscosa dove sorge, imponente, la villa in stile “egiziano tolemaico” della famiglia Van Peteghem. Dalla parte opposta della baia c’è invece un “rione” popolare, abitato principalmente dai Brufort, pescatori la cui principale attività è trasportare i turisti attraverso l’acquitrino in braccio o in barca, sempre a seconda delle maree.

La trama ruota intorno all’incontro tra le due famiglie: borghese e decadente quella dei Van Peteghem, proletaria e “famelica” quella dei Brufort. Tra l’ambiguo Billie Van Peteghem e il ferino Ma Loute Brufort nasce un legame che potrebbe far uscire la trama e i personaggi dall’universo surreale creato dall’autore, ma i rapporti sentimentali tra persone di ceti diversi, specie all’inizio del novecento, spesso sono naufragati. E quindi Bruno Dumont non lascia nessuna via d’uscita: personaggi da fumetto (come i due poliziotti a metà strada tra Dupond e Dupont e Stanlio e Ollio), caratterizzazioni pesanti degli interpreti, episodi e dialoghi assurdi. Se ci si lascia andare completamente il film può piacere, se però (comprensibilmente) si fa resistenza la “Ma loute experience” può diventare davvero faticosa.

Il clan

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Giusto in tempo, prima che cominci la nuova Mostra del cinema di Venezia, arriva nelle sale Il clan, di Pablo Trapero che ha vinto il Leone d’argento per la regia proprio alla mostra del 2015. Negli anni ottanta, quando la dittatura militare che aveva guidato l’Argentina negli anni settanta era già tramontata, c’erano gruppi, più o meno legati alla polizia segreta di Videla, che continuavano a sequestrare e uccidere persone con il pretesto di evitare una rivoluzione. Tra questi c’era Arquímedes Puccio, insospettabile proprietario di una rosticceria, che in questa attività aveva coinvolto tutta la sua famiglia: la moglie e soprattutto i suoi cinque figli, alcuni dei quali poco più che adolescenti.

I sistemi di coercizione usati dal padre nei confronti dei figli sono l’aspetto più sconvolgente del film, più ancora dei crimini compiuti dal clan. Certo si tratta di una, l’ennesima, declinazione dell’orrore di cui sono capaci esseri apparentemente umani che ci ha lasciato in eredità la guerra sporca argentina, e più in generale le dittature sudamericane. Ma, grazie anche all’interpretazione magnifica di Guillermo Francella, non sarà facile riuscire a dimenticarla.

E non solo. In sala anche Escobar con Benicio Del Toro, Suicide squad, Paradise Beach, Il drago invisibile e L’era glaciale.

Escobar

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