Sembra di essere tornati ai tempi della rivoluzione culturale in Cina negli anni sessanta. Nella provincia dello Xinjiang, nel nordovest del paese, il popolo uiguro subisce una repressione e un indottrinamento simili a quelli dell’epoca maoista, pratiche da cui si pensava che il governo cinese si fosse definitivamente allontanato.
Da mesi arrivano notizie allarmanti da questa regione confinante con i paesi dell’Asia centrale, tre volte più grande della Francia, dove vivono circa 11 milioni di uiguri, una minoranza turcofona e di religione musulmana, su una popolazione complessiva di 1,4 miliardi di persone.
Un recente rapporto di 117 pagine pubblicato da Human rights watch, una delle principali organizzazioni che difendono i diritti umani nel mondo, fornisce una testimonianza preoccupante su quello che sta succedendo nello Xinjiang.
Campi di rieducazione
Secondo il rapporto, che conferma notizie arrivate in precedenza, circa un milione di uiguri è attualmente rinchiuso in campi di rieducazione e sottoposto a un pesante indottrinamento. Human rights watch sostiene che alcune persone subiscano l’equivalente di torture. Alcune testimonianze riferiscono anche che i musulmani sono costretti a mangiare maiale per dimostrare di non essere estremisti islamici.
Alcune persone hanno passato solo pochi giorni nei campi di rieducazione, altre ci sono rimaste per mesi e altre ancora per più di un anno, il tutto dopo che un dirigente del Partito comunista dello Xinjiang ha promosso una dura campagna di “recupero”. In alcune famiglie, si legge nel rapporto, tutti gli uomini sono stati trasferiti nei campi di rieducazione. Questo confermerebbe alcuni resoconti secondo cui in interi quartieri o villaggi non si vedono più uomini.
Gli uiguri hanno una cultura, una lingua e una religione diverse dalla maggioranza dei cinesi, e mal sopportano il costante arrivo di persone provenienti da altre province, una politica che li ha messi in minoranza anche nello Xinjiang. Alcuni hanno ceduto alla tentazione della violenza contro quella che considerano una forma di colonizzazione. Qualcuno ha perfino scelto di entrare in organizzazioni terroriste come Al Qaeda o il gruppo Stato islamico, trasferendosi in Siria o in Afganistan.
La radicalizzazione di una parte della popolazione è incontestabile, e le autorità cinesi la usano per giustificarsi davanti a chi denuncia la loro politica. “Non vogliamo diventare un’altra Siria”, scrive il Global Times, un quotidiano vicino al governo di Pechino.
Ma davvero una repressione cieca contro un’intera comunità potrà proteggere la Cina dalla violenza e dal terrorismo? Quello che succede in altre parti del mondo porta a pensare che sia vero il contrario, e che Pechino stia favorendo la radicalizzazione.
La Cina rivendica il suo ruolo di potenza di primo piano nel mondo, in considerazione della sua storia e della sua importanza. Ma come pensa di ottenere il rispetto generale se ripeterà i peggiori eccessi della sua storia recente? La sofferenza degli uiguri non è degna della potenza emergente del ventunesimo secolo.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questa rubrica è uscita su France Inter.
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