Tra le vittime collaterali della vicenda Khashoggi c’è l’offensiva dell’amministrazione Trump contro l’Iran. Tra pochi giorni, il 4 novembre, il presidente degli Stati Uniti dovrebbe inaugurare la seconda fase delle sanzioni contro Teheran decise sulla scia del ritiro dall’accordo sul nucleare, a maggio. Washington vorrebbe “ridurre a zero” le esportazioni di petrolio dell’Iran, accelerando in questo modo la caduta dei mullah.

Una simile strategia richiederebbe l’impegno e la partecipazione attiva dell’Arabia Saudita, vicino e rivale dell’Iran, difficilmente compatibile con la tempesta scatenata dall’”eliminazione” in circostanze particolarmente cruente del giornalista saudita Jamal Khashoggi.

I falchi dell’amministrazione Trump, tra cui il consulente per la sicurezza nazionale John Bolton, sono convinti che il regime iraniano, già alle prese sul fronte interno con un profondo malcontento sociale, non resisterebbe al crollo degli introiti provocato dalla fine delle esportazioni della sua principale risorsa.

Dopo aver imposto unilateralmente il ritiro delle grandi aziende occidentali dall’Iran nella prima fase delle sanzioni (Total, Air France, PSA, Renault, eccetera solo per quanto riguarda la Francia), gli americani sono convinti che sia arrivato il momento di dare il colpo di grazia.

Teheran scommette che le due potenze asiatiche – in particolare Pechino – non cederanno

Trattandosi di un embargo unilaterale, senza l’avallo delle Nazioni Unite né l’appoggio dei principali alleati degli Stati Uniti, Washington ha fatto ricorso al classico strumento delle superpotenze: la minaccia di ritorsioni contro chiunque dovesse ignorare il diktat americano. John Bolton è stato chiaro: “Diamo per scontato che gli europei, come già sanno le loro aziende, capiranno che bisognerà scegliere tra fare affari con l’Iran o fare affari con gli Stati Uniti”.

Tutti obbediranno al volere della Casa Bianca? Il mese scorso, a New York, gli altri firmatari del trattato sul nucleare – gli europei, la Cina e la Russia – hanno ideato un meccanismo di “baratto” per consentire alle loro aziende di continuare a commerciare con Teheran. Ma la decisione finale sarà più politica che tecnica, perché non si sfida l’alleato americano a cuor leggero.

Gli europei potrebbero effettivamente scegliere di piegarsi – la Francia ha opportunamente smesso di acquistare petrolio da agosto – ma cosa faranno i principali acquirenti di petrolio iraniano, l’India e soprattutto la Cina? Teheran scommette che le due potenze asiatiche – in particolare Pechino, in piena guerra commerciale con gli Stati Uniti – non cederanno.

L’Iran minaccia inoltre di complicare le esportazioni di idrocarburi degli altri produttori della regione se l’embargo diventerà effettivo: “Se non potremo esportare, nessuno esporterà”, sostengono a Teheran, ventilando l’ipotesi di un conflitto nella regione strategica dello stretto di Ormuz, attraverso il quale passa il 30 per cento del commercio petrolifero mondiale. La seconda minaccia, implicita, è quella di un rialzo vertiginoso del prezzo del barile che sconvolgerebbe l’economia mondiale.

L’Arabia Saudita si era impegnata ad aumentare la produzione per compensare la presunta scomparsa del petrolio iraniano. Questo era il piano, fino a quando i sauditi si sono trovati nell’occhio del ciclone per il caso Khashoggi, che ha messo in forte imbarazzo Washington. Donald Trump ha fatto dell’Arabia Saudita il centro della sua strategia in Medio Oriente, e questo spiega tutti i suoi sforzi per minimizzare la vicenda Khashoggi. Trump aveva previsto tutto, ma non di dover gestire un ingombrante cadavere, vittima della sete di vendetta di un alleato senza scrupoli.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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