Come far cadere un dittatore aggrappato al potere con la forza? I sudanesi, come altri popoli prima di loro, si pongono questa domanda da quattro mesi, durante i quali hanno manifestato quotidianamente in centinaia di migliaia. Ora la loro rivolta pacifica è arrivata a una svolta.
Il detonatore è stato il prezzo del pane, triplicato nel mese di dicembre. Da allora la protesta si è rapidamente trasformata in una richiesta di sostituire il presidente Omar al Bashir, che governa il paese da più di trent’anni ed è accusato di crimini di guerra e genocidio dalla Corte penale internazionale.
Pane e libertà: questo chiedono i manifestanti in tutto il paese, in maggioranza donne, in un movimento coordinato dall’Associazione dei professionisti del Sudan. È una rivolta pacifica che va oltre le differenze sociali, politiche e regionali su cui fa affidamento il potere da decenni. Non è un fatto banale in un paese governato da un dittatore che da tempo l’ha trasformato in un feudo islamista.
È a Khartoum che in passato hanno fatto base gli esponenti della nebulosa jihadista, compreso Osama Bin Laden, ed è sempre nella capitale che nel 1994 è stato arrestato il terrorista Carlos, successivamente consegnato alla Francia.
Da dicembre i cortei quasi quotidiani si sono scontrati con una repressione che ha già provocato più di sessanta vittime. Il 2 aprile, però, la rivolta è entrata in una nuova fase: i manifestanti, a decine di migliaia, si sono accampati davanti al quartier generale dell’esercito sudanese a Khartoum per chiedere l’appoggio dei militari, finora restati in disparte davanti alla repressione operata dai servizi di sicurezza e dalle milizie del governo. L’8 aprile i manifestanti hanno chiesto all’esercito di organizzare insieme a loro una transizione politica.
Il Sudan è un paese immenso con una storia politica ricca, eppure da trent’anni conosce solo guerra e dittatura
Anche se si sono verificati scambi di colpi tra alcuni militari e i sostenitori del presidente, non è chiaro se l’esercito abbia deciso di prendere posizione a sostegno della piazza. Il rischio di scontri più violenti è concreto, perché i servizi di sicurezza possono contare su una forza quantomeno pari a quella dell’esercito regolare, e hanno tutto da perdere.
Il Sudan è un paese immenso (nove volte le dimensioni dell’Italia per una popolazione di quaranta milioni di abitanti) con una storia politica ricca, dalla resistenza contro la conquista britannica nel diciannovesimo secolo alle lotte politiche del ventesimo secolo, con uno dei più grandi partiti comunisti del mondo arabomusulmano.
Eppure da trent’anni il Sudan conosce soltanto la guerra e la dittatura, con la secessione del Sud Sudan al termine di un lungo conflitto, la repressione feroce in Darfur che è valsa al presidente la denuncia alla Corte penale internazionale e un paese esangue costretto a “vendersi” alle monarchie del Golfo.
Il carburante della rivolta è un sussulto di dignità e un’aspirazione verso la libertà. Adesso però questo movimento esemplare della società sudanese rischia di sprofondare in un vortice di violenza. Se così fosse, la colpa sarebbe esclusivamente del presidente Al Bashir.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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