Le donne afgane sono sempre più preoccupate dal tentativo degli Stati Uniti di negoziare la fine di una guerra durata diciotto anni con i taliban, gli stessi che, quando hanno governato il paese tra il 1996 e il 2001, avevano proibito alle ragazze di studiare e alle donne di lavorare, costringendole a coprirsi dalla testa ai piedi.

Dal 2001 le donne afgane sono state tirate in ballo regolarmente quando si è trattato di combattere l’integralismo: donne medico, pilota d’aereo, studenti o ragazzine che andavano a scuola.

Ora però, i diciotto anni di una guerra infinita (il più lungo impegno militare nella storia degli Stati Uniti) e l’incapacità politica di costruire uno stato vivibile e capace di difendersi rischiano di penalizzare quelle che hanno più da perdere.

Al momento sono in corso negoziati con i taliban, lontani da un accordo ma abbastanza avanzati da far rivivere l’angoscia di un passato non ancora del tutto superato. Da mesi gli statunitensi e i taliban continuano a discutere, mentre il 19 aprile doveva tenersi un incontro inedito in Qatar tra i rappresentanti dei taliban e una delegazione di 250 persone provenienti da Kabul in rappresentanza del governo e della società afgana.

L’incontro è stato rinviato all’ultimo minuto, perché i taliban non accettano la presenza di esponenti del governo afgano al tavolo del negoziato, in quanto non riconoscono alcuna legittimità al governo di Kabul che considerano una creazione degli Stati Uniti.

Questa piccola umiliazione, evidentemente, è un cattivo auspicio, tanto più che i taliban sono sempre più attivi sul piano militare e hanno lanciato la loro tradizionale offensiva primaverile proprio mentre si preparava l’incontro di Doha, sicuramente per mostrare che non intendono discutere in posizione di debolezza.

L’incontro era tanto più importante se consideriamo che il presidente afgano Ashraf Ghani non gradisce il dialogo diretto, senza la presenza del suo governo, tra i taliban e l’emissario degli Stati Uniti Zalmay Khalizad, un neoconservatore nato in Afghanistan.

La grande paura degli afgani è uno scenario “vietnamita”, ovvero un accordo di pace che permetta agli Stati Uniti di ritirarsi dal pantano afgano a spese del loro alleato locale, che non sarebbe più nelle condizioni di resistere al nemico.

Nel 1973 Henry Kissinger aveva paventato un “intervallo accettabile” prima che il Vietnam del Nord inglobasse il sud. Oggi gli afgani dubitano che un simile scenario possa ripetersi con un Donald Trump che non si preoccupa minimamente del destino dell’Afghanistan o degli equilibri strategici in Asia. L’unica esigenza della Casa Bianca è che i taliban s’impegnino a non sostenere più gruppi terroristici come Al Qaeda, motivo originale dell’intervento militare statunitense dopo l’11 settembre 2001.

L’equazione è irrisolvibile: gli Stati Uniti non vogliono più questa guerra senza fine, ma non esiste alcuna pace senza un accordo con i taliban che hanno come unico orizzonte insormontabile quello della sharia. Che peso ha il destino delle donne in questo calcolo?

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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