Il governo cinese sta adottando misure eccezionali per combattere l’epidemia di coronavirus, il cui impatto ha già largamente superato quello della Sars nel 2003. Ma nel frattempo in Cina si anima il dibattito sulle lezioni da trarre da questa catastrofe.
La direzione del Partito comunista cinese si è riunita il 3 febbraio e ha definito l’epidemia “un grande test per le capacità e per la governance” del paese. L’ufficio politico ha invitato a correggere “gli errori nella risposta” alla crisi sanitaria e a “migliorare” il sistema d’emergenza.
Questo, senza dubbio, è il massimo che Pechino è disposta a fare in termini di ammissione delle proprie colpe per quello che appare chiaramente, soprattutto agli abitanti di Wuhan, come un fallimento clamoroso che ha permesso all’epidemia di assumere l’attuale portata.
Ma anche in Cina numerose voci si spingono oltre e chiedono “trasparenza”, un concetto estraneo alla cultura del partito ma indispensabile in una crisi di questo tipo.
L’inquietudine creata dall’epidemia ha aperto uno spiraglio per tutti quelli che il regime ha messo a tacere
Nei pochi spazi di discussione esistenti, i cittadini esprimono il loro sostegno alle sette persone che hanno dato l’allarme, tra cui un medico successivamente contagiato che aveva parlato a dicembre del caso del misterioso virus a Wuhan. Queste persone avrebbero potuto permettere di evitare il disastro, invece sono state ridotte al silenzio.
Il 4 febbraio la rivista cinese Caixin, molto rispettata, ha pubblicato un editoriale in cui sottolinea l’importanza “dell’apertura e della trasparenza”. “Le informazioni dovrebbero essere veritiere, complete e rapide, senza omissioni volontarie e senza silenzi su certi argomenti”, scrive il giornale aggiungendo che “la qualità delle informazioni diffuse riflette il rispetto che i dirigenti hanno per il diritto dei cittadini al sapere”.
Un discorso simile, solitamente impossibile in Cina, dimostra che l’inquietudine creata dall’epidemia ha aperto uno spiraglio, anche se limitato, per tutti quelli che il regime aveva messo a tacere.
L’onnipotenza del partito
Per ora è troppo presto per capire quali insegnamenti trarrà Xi Jinping, stranamente discreto in questo momento di crisi, da un disastro ancora lontano dalla sua conclusione.
Di sicuro il potere ha percepito la richiesta di uno stato “efficiente” e non solo “leale”. Uno dei problemi evidenziati dall’epidemia, infatti, è la debolezza dello stato rispetto all’onnipotenza del partito: il primo istinto di un dirigente locale è quello di proteggere la sua carriera nel partito, non di risolvere i problemi.
La Cina può vantarsi delle sue prodezze tecnologiche, di un ospedale costruito in pochi giorni o dei droni che rilevano le temperature delle persone direttamente nelle loro case. Ma al contempo il paese si affida a un sistema sanitario che non ha saputo seguire il ritmo della crescita nazionale e a normative inadeguate.
La richiesta di trasparenza non va d’accordo con la dottrina di Xi Jinping perché ricorda troppo da vicino la “glasnost” di Gorbačëv in Unione Sovietica, una parola sgradita nel linguaggio politico cinese. In ogni caso molti cinesi sperano, senza crederci troppo, che il governo possa ascoltarli.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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