L’amministrazione Trump ha scoperto il continente africano. Per tre anni l’Africa non è mai apparsa sul radar della Casa Bianca, fatta eccezione per la dichiarazione con cui Trump, nel 2018, ha definito “cacatoi” i paesi africani. Gli abitanti del continente non avevano apprezzato, e così il presidente era stato costretto a inviare in Africa la first lady per rimediare. Personalmente, Trump non ha mai messo piede in Africa dopo essere stato eletto.

Il segretario di stato Mike Pompeo è dunque la più alta carica degli Stati Uniti a dedicare diversi giorni alla visita di tre paesi di questo continente così vasto: il Senegal francofono a ovest, l’Angola lusofona a sud e l’Etiopia a est, patria del recente premio nobel per la pace Abyi Ahmed nonché sede dell’Unione africana.

Quella di Pompeo non è un’iniziativa diplomatica né un’occasione per presentare un piano d’investimento e cooperazione, ma una visita strettamente politica.

La logica dell’offensiva
Il motivo dell’interesse statunitense per l’Africa ha un nome: Cina. Prima di partire Pompeo ha partecipato alla conferenza sulla sicurezza di Monaco ribadendo a più riprese che la Cina è una minaccia da bloccare a ogni costo, e ora anche il continente africano entra nella logica di questa offensiva.

Pompeo mette in guardia gli africani contro il tipo di rapporti proposto da Pechino: la trappola del debito, le imprese che arrivano portandosi dietro la manodopera e il rischio di una subordinazione nei confronti di una potenza semi-imperiale.

I paesi africani sanno di non avere alcun interesse a mantenere un rapporto esclusivo con la Cina

Ma il discorso del segretario di stato arriva troppo tardi. Ormai da due decenni la Cina coltiva i suoi rapporti nel continente con investimenti colossali. In Etiopia, Pompeo ha potuto ammirare l’aeroporto internazionale e la ferrovia, entrambi costruiti dai cinesi. Perfino la sede dell’Unione africana è stata finanziata e costruita da Pechino, con una spesa di duecento milioni di dollari. Quanto a Huawei, gigante tecnologico cinese diventato la bestia nera di Washington, già oggi rifornisce gran parte del continente.

Eppure gli Stati Uniti non hanno ancora perso la battaglia per l’influenza, perché i paesi africani sanno bene di non avere alcun interesse a mantenere un rapporto esclusivo con la Cina. L’Etiopia, per esempio, è uno dei grandi partner di Pechino in Africa, ma cerca di diversificare i suoi rapporti, soprattutto con gli europei.

Questo non significa che gli Stati Uniti farebbero bene a cercare di convincere gli stati africani a voltare le spalle alla Cina, che malgrado le meritate critiche può vantare un bilancio invidiabile, soprattutto in un momento in cui molti paesi – India, Giappone, Israele, Turchia e perfino la Francia, che tenta di ritrovare la sua influenza – fanno la corte a un’Africa che potrebbe entrare in una fase ascendente.

Tra l’altro gli americani non hanno i mezzi per sostenere la loro ambizione: né dal punto di vista economico, con una liquidità che non può competere con quella della Cina, né da quello militare, con l’annuncio del disimpegno parziale dal Sahel. Come se non bastasse, di recente Washington ha vietato l’ingresso sul territorio nazionale ai cittadini del paese più popoloso del continente, la Nigeria.

Se gli Stati Uniti decidessero di costringere l’Africa a scegliere uno schieramento, come già ai tempi della guerra fredda, non è detto che ne uscirebbero vincitori.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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