Il Comitato internazionale della Croce rossa (Cicr) è un’istituzione svizzera fondata oltre centocinquant’anni fa, ed è all’origine delle convenzioni di Ginevra che hanno codificato il diritto di guerra (anche nei conflitti armati esistono regole che tutti gli stati sono tenuti a rispettare). Di conseguenza, se il Cicr ha deciso di denunciare la direzione intrapresa dal conflitto tra Armenia e Azerbagian, non lo ha fatto sicuramente a cuor leggero.
I combattimenti sono in corso ormai da più di una settimana, ma nelle ultime 48 ore i bombardamenti hanno colpito quartieri residenziali in entrambi i paesi, anche al di fuori delle zone contese. Colpi di artiglieria pesante e razzi hanno raggiunto la capitale del Nagorno Karabakh, Stepanakert, e le città azere di Ganja e Mingachevir.
Secondo il Cicr si contano già decine di morti e feriti tra i civili, con centinaia di scuole, ospedali e abitazioni distrutte. Questi fatti, secondo il comitato, rischiano di violare il diritto internazionale umanitario che vieta gli attacchi indiscriminati e sproporzionati. La Francia, gli Stati Uniti e la Russia, i tre paesi che costituiscono il gruppo di Minsk incaricato di organizzare una missione nella regione, hanno condannato la piega presa dalle ostilità nella giornata del 5 ottobre.
Perché l’aumento della violenza? In questo genere di guerra tra stati, i belligeranti sanno bene che le pressioni internazionali impediscono di prolungare i combattimenti. Per questo motivo, ed è sicuramente il caso dell’Azerbaigian, spesso si cerca di cambiare la situazione sul campo prima di un eventuale ritorno al tavolo dei negoziati.
La situazione nella zona contesa era rimasta stabile per quasi trent’anni, dopo che una vittoria militare aveva permesso all’Armenia di assumere il controllo del Nagorno Karabakh, una regione dell’Azerbaigian popolata soprattutto da armeni, ma anche di una zona cuscinetto azera, che è stata svuotata della sua popolazione.
Un esperto ha dichiarato che siamo davanti a un vecchio conflitto in un nuovo contesto geopolitico
È proprio questa zona cuscinetto a essere finita nel mirino dell’esercito di Baku. L’improvvisa escalation è dovuta al fatto che dopo quasi trent’anni di immobilità l’Azerbaigian sta cercando di riconquistare le sue posizioni sul campo.
Chi può fermare questa guerra? La domanda ne innesca subito altre: se l’esercito azero, più potente rispetto a quello armeno, riuscirà a riprendere la zona cuscinetto, accetterà davvero di fermarsi? O cercherà di sfruttare il suo vantaggio per riconquistare il Nagorno Karabakh? Se fosse così, chi potrebbe impedire un disastro umanitario tra gli armeni della regione? E cosa accadrebbe se l’Azerbaigian attaccasse il territorio della Repubblica armena propriamente detta?
Queste sono le grandi incognite di un conflitto che potrebbe avere tre potenziali terreni di scontro, ognuno con il suo status, la sua storia e la sua popolazione. Per non parlare delle ripercussioni al livello internazionale. La Russia ha già un accordo di difesa con l’Armenia, e non lascerà che il paese sia travolto. Ma l’intesa non riguarda la zona cuscinetto e non è chiaro se comprenda il Nagorno Karabakh.
Resta la Turchia, protettrice dell’Azerbaigian a cui fornisce uomini e materiali. La situazione attuale ha spinto un esperto a dichiarare che siamo davanti a un vecchio conflitto in un nuovo contesto geopolitico.
Fino a che punto intende spingersi Ankara nella sua strategia da potenza regionale? Chi potrà fermare la Turchia? Sono domande cruciali e per il momento senza risposta, ma che spiegano un conflitto di cui le prime vittime, come sempre, sono i civili.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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