Ormai è un grande classico: i governi che tentano un colpo di mano lo fanno tagliando innanzitutto la connessione a internet e bloccando l’accesso ai giornalisti. È ciò che sta accadendo da tre mesi nella regione del Tigrai, nel nord dell’Etiopia, da quando il governo di Addis Abeba ha inviato l’esercito federale per domare un esecutivo locale in rottura con il potere centrale.
Dopo quindici giorni il governo aveva proclamato la vittoria e sostituito il governo del Tigrai con rappresentanti più docili, ma non è stata la fine della storia. Tre mesi dopo, infatti, le testimonianze che arrivano dai rifugiati del Tigrai, dalle organizzazioni umanitarie e dai video privati dipingono un quadro diverso, quello di una catastrofe umanitaria con massacri e violenze senza fine.
Secondo le Nazioni Unite sessantamila abitanti del Tigrai sono scappati dall’Etiopia per rifugiarsi nel vicino Sudan, mentre in due milioni hanno abbandonato le loro case per spostarsi in altre aree del paese. Tre quarti dei cinque milioni di residenti nel Tigrai hanno bisogno di aiuti umanitari. Il numero di vittime del conflitto è stimato attorno alle 50mila persone, una cifra enorme.
Diverse testimonianze e informazioni raccontano massacri di civili. Alcuni video mostrano scene di violenza contro gli abitanti dei villaggi. La repressione è brutale.
A preoccupare è soprattutto la partecipazione di truppe arrivate dall’Eritrea, che stanno dando man forte all’esercito etiope e nel frattempo non esitano a regolare vecchi conti con gli abitanti del Tigrai, con cui si sono scontrati per vent’anni quando l’Eritrea era ancora occupata dall’Etiopia. La presenza degli eritrei non è ufficiale, ma è conclamata.
Il meno che si possa dire è che le reazioni internazionali non siano all’altezza della catastrofe che colpisce il Tigrai
La settimana scorsa l’agenzia Associated Press ha accusato i soldati eritrei di aver commesso un massacro alla fine di novembre nella città storica di Axum, famosa per le sue chiese medievali. Secondo un prete citato dall’agenzia, ottocento persone sarebbero morte. Addis Abeba ha smentito la notizia.
Il meno che si possa dire è che le reazioni internazionali non siano all’altezza della catastrofe che colpisce il Tigrai. In parte questa inadeguatezza è il riflesso della debolezza delle istituzioni sovranazionali, in un momento in cui le violazioni dei diritti umani in Birmania e Siria, per non parlare di quelli degli uiguri in Cina, si scontrano con le rivalità tra potenze.
Ma non bisogna dimenticare l’ambiguità di Abiy Ahmed, primo ministro etiope insignito del premio Nobel per la pace nel 2019 per aver trovato un accordo con l’Eritrea. Oggi Ahmed combatte una delle province dell’Etiopia con l’aiuto proprio degli eritrei. La sua fama di modernista liberale ha sedotto il presidente francese Emmanuel Macron, ma nella gestione dei delicati equilibri etnici e politici dell’ex impero etiope Abiy sta usando il pugno di ferro.
È difficile chiudere gli occhi davanti a quello che sta accadendo nel Tigrai. I partner dell’Etiopia – l’Europa, gli Stati Uniti o l’Unione africana, che ha sede proprio ad Addis Abeba – non possono nascondersi dietro il rispetto degli affari interni quando sono violati palesemente i diritti umani.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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