Anche se non siamo ancora arrivati alla guerra fredda la situazione attuale comincia a ricordarla seriamente. Il 22 marzo i rapporti tra la Cina e i paesi occidentali hanno vissuto un’escalation nello scontro sempre meno ovattato sulla sorte degli uiguri dell’ovest della Cina.

Con un’azione diplomatica coordinata, l’Unione europea, il Regno Unito, gli Stati Uniti e il Canada hanno annunciato sanzioni individuali nei confronti di funzionari cinesi coinvolti nella manovra repressiva contro gli uiguri.

Immediatamente sono arrivate le rappresaglie di Pechino contro l’Europa, con sanzioni imposte a dieci figure di spicco, tra cui cinque eurodeputati (compreso il francese Raphaël Glucksmann e il verde tedesco Reinhard Bütikofer, presidente della delegazione parlamentare per i rapporti con la Cina), oltre che a un istituto di ricerca e a un’associazione parlamentare.

Difficile tornare alla calma
Nella risposta cinese emerge un paradosso. Le sanzioni europee colpiscono persone direttamente legate alla repressione nello Xinjiang, all’apparato di sicurezza, alla macchina economica dello stato e al partito comunista cinese. La risposta cinese, invece, si concentra su persone critiche nei confronti della politica cinese e di conseguenza sulla loro libertà di espressione come parlamentari, ricercatori o cittadini, senza riferimenti ad atti specifici.

Evidentemente c’è un valore simbolico nelle sanzioni individuali. Privare Raphaël Glucksmann o un altro deputato della possibilità di recarsi in Cina non gli impedirà di vivere. Il deputato del gruppo socialista al parlamento europeo, particolarmente eloquente nel difendere la causa degli uiguri, ne ha fatto addirittura un vanto su Twitter il 22 marzo.

È il primo segno dell’impegno di Joe Biden di rinvigorire la politica delle alleanze

È utile sapere che si tratta delle prime sanzioni europee contro la Cina dopo l’embargo sulle armi imposto all’indomani del massacro di piazza Tiananmen del 1989, così come inedita è la risposta di Pechino. Imporre sanzioni è più facile che cancellarle, e questo significa che un ritorno ad acque più calme sarà difficile.

Nuova frattura ideologica
D’altra parte la Cina, colpendo specificamente il parlamento europeo, ha compromesso la ratifica (che già si annunciava problematica) del trattato sino-europeo sugli investimenti negoziato a dicembre. Numerosi deputati avevano criticato l’inconsistenza degli impegni cinesi sul tema dei lavori forzati imposti agli uiguri.

Non siamo ancora alla guerra fredda, perché non è possibile passare in un batter d’occhio da un mondo globalizzato in cui la Cina occupa un ruolo primario nella produzione economica a un mondo di guerra latente, dove i blocchi sono separati.

Ma non dobbiamo farci illusioni. Il 22 marzo abbiamo assistito a un coordinamento eccezionale tra gli occidentali per colpire Pechino. È il primo segno dell’impegno di Joe Biden a rinvigorire la politica delle alleanze. Nel frattempo i cinesi hanno messo in scena un incontro con il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov nella cornice idilliaca di Guilin, nel sud della Cina, per mostrare un fronte unito dopo il burrascoso vertice sino-americano della settimana scorsa in Alaska. Uno dei temi dell’incontro? Come fare a meno del dollaro.

È in corso uno scivolamento verso una nuova frattura ideologica, e gli europei che speravano di evitarlo si trovano trascinati loro malgrado. La Cina, con la sua intransigenza e il nuovo radicalismo della propria diplomazia, spinge gli europei a schierarsi. A questo punto è difficile immaginare che qualcosa possa arrestare il degrado dei rapporti, almeno a breve termine.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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