Esistono due modi per mettere fine a una guerra: la vittoria totale di uno schieramento o un cessate il fuoco quando se ne presentano le condizioni. Tra il movimento palestinese Hamas, nella Striscia di Gaza, e Israele, è chiaro che si lavora per il secondo scenario. I razzi di Hamas non possono sconfiggere Israele, e lo stato ebraico non ha alcun desiderio di riprendere il controllo della Striscia di Gaza e dei suoi due milioni di abitanti, un incubo per il suo esercito.
Resta da capire quando arriverà il cessate il fuoco, e a quali condizioni. Il consiglio di sicurezza dell’Onu si è riunito il 16 maggio in videoconferenza. È un passaggio obbligato per dare legittimità a un accordo, ma non è in quella sede che si troverà l’intesa.
Le discussioni serie si svolgono fra i tre o quattro attori che possono influenzare le parti belligeranti: gli Stati Uniti, indispensabili per negoziare con Israele; alcuni paesi chiave come l’Egitto, che condivide un confine con Gaza; il Qatar, che mantiene un legame privilegiato con Hamas; e la Giordania, che ha la responsabilità della gestione della spianata delle moschee a Gerusalemme Est, punto d’origine della crisi in corso.
Una difesa indifendibile
Per il cessate il fuoco è senza dubbio questione di giorni. Tutto lascia pensare che questa guerra non durerà quasi due mesi come quella del 2014. Hamas ha già raggiunto il suo obiettivo, ovvero mostrare di essere l’unica forza a difendere Gerusalemme Est per poter rivendicare la leadership palestinese.
Israele sostiene che gli serve ancora tempo per raggiungere il suo scopo, ovvero distruggere il maggior numero possibile di infrastrutture di Hamas prima di fermare la sua offensiva. Da ciò deriva il ritmo incessante dei bombardamenti, lanciati a costo di fare più vittime tra i civili (compresi i bambini) o di colpire un obiettivo molto contestabile come il palazzo che ospitava i mezzi d’informazione distrutto il 15 maggio a Gaza. Ogni giorno che passa il bilancio si aggrava, e questo lo rende sempre più indifendibile da chi, come gli Stati Uniti e l’Europa, insiste sul diritto di Israele a difendersi.
Sarà un punto di partenza per un processo di pace? O si sarà solo spento un incendio in attesa del prossimo?
Se il cessate il fuoco arriverà in settimana, sia Hamas sia Israele potranno rivendicare una vittoria. Ma niente sarà risolto, perché il silenzio delle armi non è la pace.
Questa crisi non somiglia a nessuna di quelle che l’hanno preceduta, perché non si limita al classico conflitto tra Gaza e Israele. Non dobbiamo dimenticare gli scontri di Gerusalemme Est, dove tutto è cominciato, e soprattutto il “fronte interno” tra cittadini israeliani, ebrei e palestinesi del ’48, come sono chiamati. Queste ferite non si chiuderanno con un cessate il fuoco tra Israele e Hamas.
Una debole speranza
Quest’ennesima tragedia sarà un punto di partenza per un processo di pace? O si sarà solo spento un incendio in attesa del prossimo? Parte della risposta a questo interrogativo dipenderà dall’amministrazione statunitense, che non aveva alcuna voglia di lasciarsi trascinare in questo conflitto inestricabile ma che si è trovata costretta a farlo, quasi suo malgrado. Joe Biden vorrà provare ad aprire un percorso diplomatico per uscire dall’impasse? È possibile che sia spinto a farlo da una parte dei democratici che lo considera troppo compiacente nei confronti di Israele.
L’esperienza ci dice che gli attori del conflitto, se abbandonati a se stessi, non hanno alcuna possibilità di trovare una soluzione. Inoltre la storia dimostra che i pochi passi avanti verso la pace sono sempre arrivati dopo un periodo di crisi. È una debole speranza in un paesaggio devastato.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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