Dopo il cessate il fuoco tra Israele e Hamas bisogna tornare al dialogo
Era un primo passo indispensabile per mettere fine alle sofferenze, ma il cessate il fuoco finalmente accettato la sera del 20 maggio da Israele e Hamas, all’undicesimo giorno di scontri, garantisce solo una tregua, non una pace duratura.
Niente impedisce che tra qualche mese o qualche anno, con un’altra scintilla, si ricominci a combattere. Come rompere questo circolo vizioso di violenza? Da anni ormai nessun processo di pace è in corso. Le condizioni di un negoziato oggi non esistono, né sul fronte israeliano, in assenza di un governo stabile e considerata la deriva verso l’estrema destra, né sul fronte palestinese, profondamente diviso. Lo status quo, però, è insostenibile, e non genera rassegnazione, bensì frustrazione e collera.
Allora bisogna porsi la domanda tabù: è necessario trattare con Hamas? D’altronde in passato Israele ha negoziato con l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, l’Olp di Yasser Arafat, un’azione all’epoca vietata dalla legge israeliana.
La pace con il nemico
Quali possono essere gli argomenti per dialogare con Hamas? Al momento la domanda è puramente retorica, soprattutto dopo gli ultimi sviluppi. Hamas è tuttora considerata un’organizzazione terrorista, responsabile di attentati spietati.
Ma la pace si fa con i nemici, non certo con gli amici. In Afghanistan gli Stati Uniti hanno negoziato con i taliban, colpevoli di atrocità indicibili. La trattativa è indispensabile quando non si riesce a far sparire l’avversario.
Hamas si nutre dell’assenza di soluzioni, e non sarebbe così forte in un contesto portatore di speranza. L’organizzazione approfitta anche del discredito che ha colpito l’Autorità palestinese di Abu Mazen, che si limita agli affari correnti senza offrire alcuna soluzione. Hamas sarà pure un’organizzazione terrorista, ma trae la sua forza dalla tragedia in corso e si rafforza quando subisce pesanti perdite.
Questa ultima guerra ci sarebbe stata in caso di regolare svolgimento delle elezioni?
Da anni gli osservatori attenti sottolineano l’esistenza di fazioni opposte al suo interno: una che potremmo definire “pragmatica” e l’altra che si rifà al braccio armato, più inflessibile.
Negli ultimi anni Hamas ha fatto piccoli passi per allontanarsi dalla sua posizione iniziale, che puntava alla scomparsa di Israele. Il movimento islamista aveva perfino accettato di partecipare alle elezioni previste nel quadro degli accordi di Oslo, contro i quali peraltro si era schierato all’epoca della firma. Eppure le elezioni di quest’anno sono state annullate da Abu Mazen, a quanto pare proprio perché Hamas avrebbe potuto ottenere un buon risultato.
In settimana Hugh Lovatt, analista del centro di analisi European council on foreign relations si domandava se questa ultima guerra ci sarebbe stata in caso di regolare svolgimento delle elezioni. La lotta armata diventa più difficile da giustificare quando si entra in un processo politico.
Negli ultimi anni diverse voci si sono levate per spingere Hamas ad abbandonare la violenza e diventare una forza politica a tutti gli effetti. Ma non è stato possibile. Forse è un’eresia, e Hamas dovrà essere giudicato per le sue azioni, non per le sue parole. Ma una volta che sarà cessato il rumore delle armi bisognerà porsi la domanda sul “dopo”, cercando in tutti i modi di scongiurare scontri che non farebbero altro che alimentare l’odio e le violenze di domani.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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