L’ultima parola è toccata al presidente ruandese Paul Kagame, che all’epoca del genocidio dei tutsi era il capo della rivolta contro cui era impegnata la Francia. Commentando il fatto che il presidente francese Emmanuel Macron non si è scusato per il ruolo svolto dal suo paese in Ruanda in occasione del discorso del 27 maggio a Kigali, Kagame ha risposto: “Il discorso in sé è un atto di immenso coraggio, ha più valore delle scuse”.

Naturalmente serpeggia una certa delusione tra le associazioni dei sopravvissuti al genocidio e tra tutti coloro che in Francia speravano in un pentimento totale. Ma alla fine la coreografia di questo appuntamento francoruandese è stata firmata da Kagame, e la sua parola ha un peso sufficiente per chiudere il dibattito: non quello della storia, che proseguirà il suo cammino e forse rivelerà altre verità, ma quello tra i due stati, Francia e Ruanda, che volevano voltare pagina su un passato oscuro.

Macron ha pronunciato un discorso molto sfumato, prendendo spunto dal rapporto Duclert redatto dalla commissione di storici francesi che ha avuto accesso ad archivi finora classificati come segreto di stato. Secondo il rapporto, la Francia non è complice del genocidio, in cui morirono 800mila persone, ma ha delle responsabilità per quanto accaduto prima, durante e dopo la tragedia.

Una politica euroafricana
Kagame è un abile tattico, e si è rifiutato di normalizzare i rapporti con la Francia finché non è stato avviato un vero processo politico. Un primo tentativo compiuto dall’ex presidente Nicolas Sarkozy non aveva avuto successo. Dopo l’elezione di Macron, Kagame ha subito capito che il lavoro sulla memoria era molto importante nella visione politica del nuovo presidente francese, e ha deciso quale sarebbe stato il momento di voltare pagina.

Recentemente Kagame ha dichiarato alla rivista Jeune Afrique: “Abbiamo fatto l’85-90 per cento del lavoro per normalizzare la situazione, e penso che sia necessario soffermarsi sul restante 10-15 per cento. Costruiremo a partire da ciò che abbiamo costruito e poi passeremo ad altro”. Con “altro” intende la creazione di una politica euroafricana in cui la Francia e il Ruanda occupino le posizioni centrali.

Questo metodo di sicuro non funziona con l’Algeria, l’altro grande tema aperto da Macron

Questo pragmatismo ha favorito Macron, che ha potuto seguire una linea politica improntata alla complessità, contraddistinta dall’espressione en même temps, “allo stesso tempo”, che lui ama ripetere: da un lato, vuole rivolgere uno sguardo sincero e senza compiacenza su una colpa grave della Francia e, allo stesso tempo, non vuole subire il fuoco di fila di chi si oppone al pentimento e del clan dell’ex presidente François Mitterrand (in carica ai tempi del genocidio).

Questo metodo può funzionare in altre situazioni? Di sicuro non ha avuto successo con l’Algeria, l’altro grande tema aperto dal presidente. Il rapporto commissionato allo storico Benjamin Stora, infatti, ha incontrato un muro ad Algeri, non in ragione del suo contenuto (anche in quel caso non ci sono state scuse) ma a causa dei giochi di potere e della strumentalizzazione della guerra d’indipendenza.

È giusto seguire questa strada della memoria, che non riscuote consensi in Francia, per affrontare situazioni diplomatiche complesse? Sì, perché le ferite storiche di cui spesso la Francia non ha coscienza pesano sul presente e sul futuro. Con l’Algeria ma anche con le ex colonie in Africa queste problematiche emergono senza preavviso.

Sarebbe più facile nascondere tutto sotto il tappeto della negazione, ma l’esempio del Ruanda dimostra fino a che punto un evento così carico di significato non possa sparire a comando. L’esercizio è rischioso, è inquietante, ma dopo aver guardato la storia in faccia si esce rafforzati.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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