“Il G7 non è un club anticinese”, ha dichiarato il 13 giugno il presidente francese Emmanuel Macron al termine del vertice del G7 nel Regno Unito. Tuttavia questa tendenza è emersa a tal punto nel primo vertice internazionale a cui ha partecipato il nuovo presidente degli Stati Uniti che la Cina è citata direttamente nelle conclusioni della riunione. Non era mai accaduto.

Joe Biden ha incontestabilmente impresso il suo marchio sul G7, mentre gli europei sono stati felici di ritrovare un partner americano amichevole dopo l’era glaciale di Donald Trump. In realtà, però, gli europei temono di essere trascinati più di quanto vogliano nella nuova guerra fredda che di fatto è cominciata, ma non hanno saputo opporsi al rullo compressore statunitense.

Il vertice ha denunciato le violazioni dei diritti umani nello Xinjiang e a Hong Kong, e fatto riferimento alla necessaria “stabilità nello stretto di Taiwan”. Di sicuro Pechino non ne sarà entusiasta. Inoltre è stata annunciata la creazione di un programma rivale delle nuove vie della seta cinesi, ed è stata ribadita la richiesta di una nuova inchiesta in Cina sull’origine del virus sars-cov-2. A Parigi avrebbero preferito che tutto questo non entrasse in un comunicato del G7.

Una nuova ambiguità
Anche se manifestano più prudenza, gli europei non sono in disaccordo con le critiche rivolte alla Cina. Al contempo, nella loro ricerca di un’autonomia strategica, non vorrebbero essere costretti ad allinearsi a un partner americano che sembra aver indossato nuovamente i panni di leader mondiale.

Questa ambiguità si ritrova nel quadro del G7. Il gruppo era in passato un’associazione informale dedicata al coordinamento tra le principali economie mondiali. Ora, invece, si sta trasformando nel direttorio mondiale di un blocco democratico, senza legittimità particolare a parte la potenza e la ricchezza degli stati che lo compongono.

Se rimanesse solo una causa dell’occidente, la democrazia sarebbe davvero in pericolo

Come si sottolineava a Parigi alla vigilia del vertice, esiste un pericolo evidente legato al fatto di affidare la difesa della democrazia a un club di paesi ricchi, tutti occidentali (fatta eccezione per il Giappone) e costituto in maggioranza da ex potenze coloniali.

Per evitare questo rischio a margine del G7 sono invitati paesi come India o Sudafrica, ma oltre al fatto che le derive populiste del primo ministro indiano Narendra Modi rendono la sua concezione della democrazia molto contestabile, questo non cambia nulla rispetto allo zoccolo duro del club.

La propaganda cinese ha capito di avere un’opportunità per attaccare, e il 13 giugno ha risposto ricordando che “è finita da tempo l’epoca in cui le decisioni mondiali le prendeva un piccolo gruppo di paesi ”. Nei paesi in via di sviluppo, in Africa come in Asia, sarà facile spingere l’opinione pubblica contro le ex potenze coloniali che vogliono dettare la loro legge al resto del mondo.

In un mondo in cui la democrazia è così indebolita, la difesa dei valori democratici è un obiettivo troppo importante per essere affidato ai paesi più ricchi che non sempre hanno rispettato i valori che professano.

Se rimanesse una causa difesa solo dall’occidente, la democrazia sarebbe davvero in pericolo. La democrazia sarà davvero al sicuro solo quando diventerà una causa realmente universale, in particolare davanti a una Cina portatrice di altri valori. E il G7 è tutto fuorché un’istanza universale.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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