La morte nei territori palestinesi della giornalista Shireen Abu Akleh, che lavorava per Al Jazeera, non è solo un incidente come un altro. La vicenda ha una portata politica, simbolica ed emotiva in una regione costantemente instabile, e non deve aggiungersi alla lunga lista di incidenti mai chiariti. L’esercito israeliano deve fare luce.
Shireen Abu Akleh, 51 anni, giornalista da oltre vent’anni per Al Jazeera, era rispettata da tutte le persone che l’hanno conosciuta, anche nei mezzi d’informazione israeliani. L’11 maggio stava seguendo un’operazione dell’esercito israeliano in un campo profughi della regione di Jenin, nel nord della Cisgiordania. Indossava un giubbotto antiproiettile su cui era ben visibile la scritta stampa.
Secondo gli altri giornalisti presenti sul posto, Shireen Abu Akleh non si trovava al centro del fuoco incrociato, come può capitare nelle zone di conflitto. La giornalista sarebbe stata presa di mira e colpita alla testa.
Scambio di accuse
A partire da questo punto, come accade sempre in situazioni simili, è partita la guerra delle dichiarazioni, che ha offuscato la realtà dei fatti. L’esercito israeliano ha immediatamente affermato, prima ancora che fosse condotta un’inchiesta, che i colpi di arma da fuoco provenivano dal versante palestinese. Questa tesi è stata smentita dagli altri giornalisti sul posto, secondo cui non ci sarebbero stati spari sul versante palestinese in quel momento.
Le istituzioni israeliane hanno affermato che l’Autorità palestinese ha rifiutato l’offerta di condurre un’inchiesta comune. L’informazione è stata smentita da un portavoce di Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese, secondo cui non è stata avanzata alcuna offerta. Abu Mazen ha accusato lo stato ebraico di aver “assassinato” Shireen Abu Akleh.
La storia racconta che raramente queste inchieste sono portate a termine
Dopo questi scambi carichi di tensione, purtroppo consueti in questo tipo di situazione, sono stati lanciati appelli ad avviare un’inchiesta approfondita, soprattutto dagli Stati Uniti. La giornalista, nata a Gerusalemme, aveva infatti passaporto statunitense.
Ma la storia racconta che raramente queste inchieste vengono portate a termine. È per questo che le associazioni per la difesa della libertà di stampa chiedono un’indagine internazionale che non sia affidata unicamente all’esercito israeliano. Reporter senza frontiere ritiene che potrebbe essersi verificata una violazione della convenzione di Ginevra e di una risoluzione del Consiglio di sicurezza sulla protezione dei giornalisti.
Da mesi nella regione è in corso un incremento della violenza. La morte tragica di una giornalista conosciuta da tutti i palestinesi rischia di incendiare una situazione già di per sé tesa: gli scontri sulla Spianata delle moschee a Gerusalemme, lo sfratto dei palestinesi dalle loro case, gli omicidi di cittadini israeliani in diverse città nelle ultime settimane…
Questo è lo scenario quotidiano di una regione senza pace e senza prospettive di pace, soprattutto in un contesto di instabilità cronica sul fronte israeliano (dove la sopravvivenza della coalizione dipende dai voti esitanti di un partito arabo) e di impasse sul fronte palestinese, dove Abu Mazen ha superato da tempo i limiti del suo mandato.
Ma non bisogna dimenticare il contesto della guerra in Ucraina e il risentimento espresso più volte dai paesi del sud nei confronti degli occidentali, accusati di esprimere una “indignazione selettiva”. Israele fa parte evidentemente di questo punto cieco della diplomazia occidentale. La morte di Shireen Abu Akleh non può essere ignorata. La necessità di trovare la verità è evidente per tutti.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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