La guerra in Ucraina ha riportato in auge un riferimento storico: il non allineamento. Oggi questa espressione la usano quei paesi che non vogliono prendere parte a un conflitto che ritengono estraneo e che considerano uno strascico della guerra fredda, dunque una faccenda che riguarda solo gli europei o comunque gli occidentali in senso allargato, compresi quelli come il Giappone o l’Australia.

Secondo questa posizione i paesi del “global south” (il sud globale, espressione ormai diffusa) dovrebbero affermare la propria indipendenza rispetto alle grandi potenze, vecchie o nuove. Da questo approccio nasce il concetto di “nuovi non allineati”, piuttosto seducente a prima vista ma anche, nei fatti, abbastanza ambiguo.

Il riferimento è nobile: nel 1955, a Bandung, in Indonesia, si tenne la riunione fondativa del Movimento dei non allineati, di cui facevano parte i paesi che si rifiutavano di “schierarsi” nello scontro tra est e ovest della guerra fredda. All’epoca il vento della decolonizzazione soffiava sul mondo e faceva vacillare gli imperi, ma spesso i nuovi paesi indipendenti non si riconoscevano nel “campo socialista” incarnato dall’Unione Sovietica, nemmeno dopo la morte di Stalin nel 1953. A Bandung si ritrovarono le grandi figure delle nuove indipendenze (come l’indiano Jawaharlal Nehru o il futuro presidente del Ghana Kwame Nkrumah), ma anche i paesi dissidenti del mondo socialista, come la Jugoslavia di Tito e perfino la Cina di Mao, rappresentata alla conferenza dall’astuto Zhou Enlai.

Il grande malinteso
Riferirsi a Bandung può servire a nobilitare i paesi che nel 2022 vogliono sfuggire alla polarizzazione del mondo. Ironia della storia, la Cina, che nel 1955 dichiarava il proprio non allineamento dopo aver preso le distanze dal grande fratello sovietico, oggi è uno dei due poli dominanti del mondo contro cui, in linea di principio, dovrebbero schierarsi i nuovi “ribelli” dell’ordine internazionale.

L’iniziativa è sicuramente lodevole. Se parliamo di mondo multipolare – lo facciamo da tempo, senza tuttavia mai realizzarlo – è arrivato il momento di rispettare ognuno dei poli e smettere di esortarsi a vicenda a scegliere da che parte stare, come ai tempi della guerra fredda. Ma è qui che nasce il grande malinteso sul concetto di non allineamento, ieri come oggi. Negli anni successivi al 1955 lo slancio non allineato di Bandung è stato progressivamente smarrito, fino a quando i paesi che lo animavano sono diventati “compagni di viaggio” del blocco sovietico, a volte inconsciamente, in nome di un antimperialismo legittimo ma che di certo non avrebbe dovuto spingere i non allineati ad… allinearsi, e dunque a perdersi.

Il non allineamento è una posizione encomiabile quando non ignora una situazione di ingiustizia come quella che vive l’Ucraina

Oggi succede più o meno lo stesso. Molti paesi del sud ne hanno abbastanza di essere presi in ostaggio dalle schermaglie tra le grandi potenze (che li riguardano poco) e vogliono mantenere una distanza politicamente salutare. A questo si aggiunge la sensazione, molto presente nell’opinione pubblica dei paesi emergenti, che esista un sistema di due pesi e due misure imposto dagli occidentali, che reagiscono violentemente quando Mosca viola il diritto internazionale ma chiudono un occhio quando a farlo sono gli Stati Uniti (in Iraq), Israele (nei territori palestinesi) o l’Arabia Saudita (in Yemen). Infine il fatto che l’occidente sia costituito in gran parte da ex potenze coloniali di certo non aiuta, soprattutto in un momento segnato dal riemergere dei sentimenti anticoloniali tra i giovani africani (di cui sta attualmente facendo le spese la Francia).

Questo scisma è apparso evidente nell’ultima riunione ministeriale del G20, organizzata a Bali, in Indonesia, lo stesso paese dove 67 anni fa si è svolto il vertice di Bandung. Il G20 raggruppa le principali potenze occidentali, la Russia, la Cina, l’India e i grandi paesi emergenti: il Brasile, i paesi del golfo, l’Egitto, il Sudafrica e via dicendo. Gli occidentali hanno boicottato la presenza, gli interventi e perfino la tradizionale “foto di famiglia” ogni volta che è stato coinvolto Sergej Lavrov, capo della diplomazia russa e uno dei “falchi” propagandisti di Vladimir Putin dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina.

Nessun isolamento
In un commento pubblicato sul Jakarta Times, il grande quotidiano indonesiano, la ministra degli esteri francese Catherine Colonna ha scritto che “per la maggior parte degli esponenti del G20 la leadership russa ha perso la sua legittimità come componente del gruppo quando Putin ha deciso di violare le frontiere dell’Ucraina”. Ma a Bali le cose non sono andate esattamente così. È vero che nessun occidentale ha voluto incontrare Lavrov, ma il ministro russo non ha perso tempo, parlando con i suoi colleghi di India, Brasile, Turchia (paese della Nato), Argentina, Indonesia e naturalmente con il suo “amico” cinese Wang Yi. Insomma non si è verificato alcun isolamento, anche se Lavrov è partito in anticipo per non dover sentire ancora le raffiche di critiche degli occidentali e del suo collega ucraino Dmytro Kuleba.

L’India è un caso particolarmente interessante: pur facendo parte di alcune strutture create da Washington per contrastare la Cina, come il Quad (con Australia, Giappone e Stati Uniti), il governo di Delhi rifiuta di voltare le spalle al vecchio amico russo, che tra l’altro resta il primo fornitore d’armi del paese. L’India ha incrementato l’acquisto di petrolio russo (a prezzo ridotto) quando gli occidentali hanno imposto un blocco, e ha comprato perfino carbone russo pagando in yuan, la moneta del rivale cinese. Questa posizione indiana evidenzia ai massimi livelli il desiderio di autonomia di una potenza regionale che rifiuta l’allineamento. Lo stesso vale per il Brasile di Bolsonaro, in passato vicinissimo a Donald Trump ma che la settimana scorsa ha dichiarato che le sanzioni contro la Russia “hanno fallito”. Il rivale di Bolsonaro alle prossime elezioni, Iñacio Lula da Silva, ha rilasciato anche lui dichiarazioni sull’Ucraina dai toni antiamericani.

In questa volontà di emancipazione del sud globale c’è un doppio paradosso: prima di tutto questo sentimento ignora il fatto che il punto di partenza della crisi ucraina è la violazione della sovranità di uno stato membro delle Nazioni Unite da parte di un paese che siede nel Consiglio di sicurezza. In secondo luogo questo slancio si afferma nonostante il fatto che le conseguenze catastrofiche della guerra per le economie e le popolazioni del sud – dal prezzo dell’energia alle carenze alimentari – siano dovute prima di tutto all’azione di Putin. Questi due fattori avrebbero dovuto impedire un’equidistanza che agli ucraini suona parecchio come un “tradimento” in un momento decisivo per la loro sopravvivenza.

Senza dubbio gli occidentali pagano i troppi anni di unilateralismo e arroganza rispetto ai paesi del sud, un aspetto che rende qualsiasi discorso sui “valori” poco credibile. Di contro, la strategia cinese del clientelismo attraverso le nuove “vie della seta” o quella russa di strumentalizzazione dei social network e agitazione antioccidentale producono i loro frutti.

Il non allineamento è una posizione encomiabile quando non ignora una situazione di ingiustizia come quella che vive l’Ucraina, ridotta in macerie da un esercito straniero. I nuovi “non allineati” dovrebbero usare la loro forza collettiva per cercare di far rispettare le leggi da tutti, compresi gli occidentali. A questo punto c’è il rischio di mancare un’occasione per ridefinire l’ordine internazionale rafforzandone l’uguaglianza, e anche in questo caso la storia sembra ripetersi. Bandung, nel 1955, non aveva prodotto una forza capace di mettere fine alla guerra fredda e proporre un “altro mondo”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul settimanale francese L’Obs.

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