Le proteste in Cina e in Iran hanno qualcosa in comune
Nell’arco di poco più di due mesi due movimenti spontanei di massa hanno stravolto due regimi totalitari. A parte l’autoritarismo, la Cina e l’Iran sono due paesi molto diversi, eppure esistono numerosi punti in comune tra le due rivolte.
In entrambi i casi eventi che sarebbero potuti passare totalmente inosservati hanno provocato l’esplosione della rabbia popolare. In Iran la morte di Mahsa Amini mentre era nelle mani della polizia religiosa non ha niente di eccezionale: la brutalità delle diverse forze dell’ordine è purtroppo un elemento frequente. Tuttavia la sua morte ha innescato la rivolta delle donne.
In Cina l’incendio in un palazzo di Urumqi che ha dato il via all’ondata di proteste poteva restare un caso isolato, come era accaduto a settembre con la vicenda dell’incidente di un autobus carico di persone trasportate in un campo di isolamento nella provincia di Guizhou, con 27 vittime. Ma stavolta i dieci morti di Urumqi hanno spinto i cinesi a scendere in piazza come non avevano mai fatto negli ultimi tre decenni.
Gli ingranaggi della rivoluzione
È possibile mettere a confronto i due movimenti? In realtà è giusto paragonarli per capire come nascono le rivoluzioni e qual è l’ingranaggio che mette in movimento le masse. Nel 2011 il suicidio di un venditore di ortaggi in una piccola città della Tunisia causò la caduta di una dittatura, perché il contesto era esplosivo e perché il regime non era solido come sembrava.
In Iran come in Cina, è sempre una questione di contesto, soprattutto per i giovani dei due paesi che per motivi diversi vedono i propri orizzonti bloccati. In Iran il rigore morale dei mullah, abbinato all’eterno marasma economico dovuto all’isolamento del regime, hanno fatto perdere la speranza a una gioventù che aspira a una vita migliore.
L’iperconnessione favorisce la rapidità della diffusione delle informazioni e dei codici della rivolta
In Cina la scintilla è stata l’esasperazione per la politica zero covid, che ha mantenuto il paese in un universo fatto di lockdown e tamponi quando in televisione gli stadi del Qatar mostravano che il resto del mondo vive un’esistenza normale. Ma non bisogna dimenticare il rallentamento economico, a causa del quale il 20 per cento dei giovani non ha un lavoro (è un dato ufficiale) mentre la crisi del mercato immobiliare cancella le aspirazioni della classe media.
I giovani sono sempre in prima linea, perché alla fine sono quelli che non pensano di avere niente da perdere davanti a un orizzonte scomparso. Ad attivarsi è la generazione di internet, e in questo Iran e Cina sono sulla stessa lunghezza d’onda malgrado la censura.
Questa iperconnessione favorisce la rapidità della diffusione delle informazioni e dei codici della rivolta. In Iran abbiamo visto lo slogan “donne, vita, libertà” diventare virale nel giro di poche ore insieme al taglio dei capelli e ai video di sfida senza velo diffusi in tutto il mondo.
In Cina ci sono il foglio bianco a simboleggiare la censura, gli eroi per un giorno come “Superman” – soprannome attribuito a un ragazzo di Chongqing che sfoggiava uno sticker del supereroe sul suo zaino ed è stato arrestato dopo aver tenuto un discorso incendiario – o ancora gli studenti di scienze che hanno usato l’equazione di Friedman, semplicemente perché il suono della parola Friedman è simile a quello dell’espressione “free man”, uomo libero. Qualsiasi cosa pur di ingannare la censura.
Tutto questo non aiuta a prevedere lo sviluppo di questi movimenti inediti, ma fa capire in quale modo nascano i fenomeni politici di oggi quando non esiste uno spazio per la politica. I dittatori lo stanno scoprendo a proprie spese.
(Traduzione di Andrea Sparacino)