Se piazzate un piromane a capo dei pompieri, inevitabilmente avrete incendi. È quello che sta succedendo in Israele dopo la nomina del leader dell’estrema destra Itamar Ben-Gvir come ministro della sicurezza nazionale.

A Ben-Gvir, in passato condannato per incitamento all’odio, è bastata una settimana per fare qualcosa che il capo del governo Benjamin Netanyahu non si auspicava di certo: il ministro si è recato sulla spianata delle moschee di Gerusalemme, terzo luogo sacro dell’islam e uno dei siti più delicati del pianeta.

Ben-Gvir ha un obiettivo dichiarato: vuole rimettere in discussione lo status quo in vigore dopo la conquista di Israele dei Territori palestinesi e di Gerusalemme Est nel 1967, con il divieto per gli ebrei di pregare sulla spianata delle moschee, dove circa duemila anni fa si trovava il loro tempio.

Tempesta diplomatica
La mattina del 3 gennaio la passeggiata di Ben-Gvir, circondato dagli agenti di sicurezza, ha trascinato Israele in una tempesta diplomatica di cui Netanyahu avrebbe volentieri fatto a meno.

Ben-Gvir sostiene di aver semplicemente voluto sfidare gli islamisti di Hamas, che lo avevano messo in guardia. Ma la verità è che il mondo intero era contrario alla sua iniziativa.

Washington non vuole trovarsi per le mani una nuova crisi in Medio Oriente

Il 3 gennaio la Giordania, regno ascemita che ha il compito di gestire la spianata delle moschee, ha convocato l’ambasciatore di Israele per protestare. Gli Emirati Arabi Uniti, che di recente hanno rafforzato i rapporti con lo stato ebraico, hanno criticato la visita del ministro, e lo stesso ha fatto l’Arabia Saudita, che ormai mantiene relazioni ufficiose con Israele.

Perfino il governo degli Stati Uniti, tradizionale protettore di Israele, ha definito “inaccettabile” il tentativo di alterare lo status quo. Washington, infatti, non vuole trovarsi per le mani una nuova crisi in Medio Oriente in un contesto già esplosivo.

Gli statunitensi ricordano le parole con cui Netanyahu aveva promesso che non avrebbe consentito a Ben-Gvir di cambiare la situazione di Gerusalemme. “So che questo metterebbe a ferro e fuoco il Medio Oriente e solleverebbe miliardi di musulmani contro di noi”, aveva dichiarato Netanyahu. Era il 2020.

Ciò che è cambiato da allora è che Netanyahu non avrebbe potuto vincere le quinte elezioni legislative in quattro anni senza il sostegno del partito di estrema destra Otzma yehudit (Potere ebraico) guidato da Ben-Gvir.

La questione della spianata delle moschee si è trasformata nel primo test per la nuova coalizione. Netanyahu ha stretto un patto faustiano con forze estremiste che non intendono ricoprire il ruolo di comparse nel governo. Il 1 gennaio un deputato del partito di Ben-Gvir, dunque esponente della coalizione al potere, ha dichiarato che l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi è “definitiva”. Dunque si tratta di un’annessione (pur non dichiarata) che seppellisce definitivamente l’ipotesi di due stati, Israele e Palestina, coesistenti fianco a fianco.

Netanyahu ha formato una coalizione che va ben oltre tutto quello che “Bibi” aveva osato finora, e che vuole chiaramente cambiare la natura di Israele. Il primo ministro dovrà decidere alla svelta se vuole essere complice o semplicemente ostaggio degli estremisti che si sono impossessati della politica israeliana. Questa sfumatura, probabilmente, determinerà la durata della coalizione.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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