Il raid israeliano a Jenin alimenta la tensione in Cisgiordania
Il 26 gennaio nove palestinesi sono stati uccisi nel corso di un’operazione dell’esercito israeliano nella città di Jenin, nel nord della Cisgiordania. Il numero delle vittime sale a 26 dall’inizio dell’anno, con un netto peggioramento rispetto a un 2022 che aveva già fatto segnare il bilancio peggiore dal 2004, con 104 morti.
Potremmo parlare di routine di violenza a bassa intensità se solo il contesto politico non fosse così esplosivo, con un governo israeliano in cui i ruoli principali sono ricoperti da rappresentanti di un’estrema destra aggressiva, ostile a qualsiasi intesa con i palestinesi e sostenitrice delle maniere forti.
Il 26 gennaio l’esercito israeliano ha dichiarato che il numero elevato di vittime a Jenin non è dovuto a un cambiamento nella strategia militare ma alla gravità dello scontro con alcuni componenti della Jihad islamica, un gruppo fuori legge.
Approccio intransigente
Ma il contesto politico, inevitabilmente, influisce. L’Autorità palestinese di Abu Mazen, pesantemente indebolita, parla di “massacro”; un appello allo sciopero generale è stato lanciato in Cisgiordania; a Gaza gli islamisti di Hamas minacciano rappresaglie. Queste reazioni sono particolarmente accese anche perché ai vertici di Israele è stato scelto un approccio intransigente.
Il nuovo governo di Benjamin Netanyahu, insediato da meno di un mese, segue una linea particolarmente dura nei confronti dei palestinesi. A determinarla è l’ideologia dei partiti che fanno parte della coalizione, alcuni dei quali, apertamente razzisti, vorrebbero l’annessione dei territori palestinesi e lo sviluppo illimitato delle colonie.
Da anni la maggioranza degli israeliani, favorevole o meno a Netanyahu, ignora del tutto la situazione sul fronte palestinese
Il rischio evidente è quello di alimentare la radicalizzazione dei giovani palestinesi, a cui oggi non viene offerta alcuna prospettiva individuale o collettiva. Per questo si sono sviluppati gruppi armati che non sono necessariamente affiliati alle organizzazione storiche ma sono determinati a entrare in azione, malgrado un rapporto di forze smisuratamente favorevole a Israele.
Il 26 gennaio l’Autorità palestinese ha denunciato il silenzio della comunità internazionale, che non sa come rispondere alla nuova situazione politica nello stato ebraico.
Intanto nelle strade di Israele cresce un’opposizione: dal ritorno di Netanyahu, ogni sabato una folla considerevole si riunisce a Tel Aviv e in altre città per manifestare la propria ostilità ai progetti del governo. La settimana scorsa i manifestanti sono stati più di 150mila, un numero considerevole.
Tuttavia sono in pochi a includere il destino dei palestinesi tra le proprie rivendicazioni. Per mantenere un fronte ampio, infatti, i manifestanti si concentrano sulle minacce che incombono sulla democrazia israeliana, a cominciare dalla riforma della corte suprema, il principale contropotere del paese.
Da anni la maggioranza degli israeliani, favorevole o meno a Netanyahu, ignora del tutto la situazione sul fronte palestinese. Il fallimento degli accordi di Oslo del 1993 ha allontanato gli israeliani dal tema dell’occupazione e della pace con i vicini. La scomparsa della sinistra ha fatto il resto.
Il risultato è che il governo usa la forza per gestire la questione palestinese e la prosecuzione dell’occupazione, senza doversi preoccupare della reazione della popolazione israeliana. Il dibattito sull’erosione della democrazia in Israele è una preoccupazione di lusso, riservata esclusivamente agli israeliani.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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