La società israeliana vive ore intense e in un certo senso inedite. Lo stato ebraico ha alle spalle una lunga storia di proteste, dalle centinaia di migliaia di persone scese in piazza contro la guerra in Libano del 1982 alla rivolta sociale delle tende sul viale Rothschild di Tel Aviv, nel 2011.
Tuttavia nell’attuale ondata di manifestazioni c’è una dimensione esistenziale. Al centro di tutto non c’è la sopravvivenza del paese, come in tempo di guerra, ma l’identità, il sistema politico e il peso della religione. A volte è difficile comprendere le dinamiche israeliane dall’estero, dove spesso osserviamo questa parte del mondo solo attraverso il prisma del conflitto israelo-palestinese, che tra l’altro si sta aggravando. La sera del 9 marzo un attentato a Tel Aviv, in cui ci sono stati tre feriti, ci ha ricordato che le due crisi si svolgono in parallelo.
Nello stesso giorno, ancora una volta, grandi manifestazioni hanno avuto luogo in tutto il paese contro le riforme che indeboliscono il ruolo della corte suprema e contro la deriva “illiberale” dei progetti di Benjamin Netanyahu e della sua coalizione, di cui fa parte l’estrema destra religiosa. Le proteste hanno ricevuto l’appoggio indiretto del presidente Isaac Herzog, che ha parlato di “incubo” e ha invitato il primo ministro a “cancellare il suo piano da questo mondo”. Parole forti, evidentemente.
Il rullo compressore ideologico del governo ha risvegliato una parte della società israeliana
Netanyahu è tornato al potere da appena due mesi, dopo aver vinto le quinte elezioni legislative in quattro anni e aver formato la coalizione più sbilanciata a destra nella storia del paese. Qualcuno sperava che Netanyahu potesse contenere l’influenza degli estremisti di destra, e invece li ha piazzati in ruoli chiave garantendogli un potere decisionale sulla sicurezza e la gestione dei territori palestinesi. Il nuovo governo ha avviato un piano di riforme che snatura il sistema democratico dello stato ebraico.
Questo rullo compressore ideologico ha risvegliato una parte della società israeliana, stremata dalle schermaglie politiche degli ultimi anni. Questa parte della popolazione è democratica, laica, inclusiva e soprattutto, per quanto sia disabituata all’idea della pace con i palestinesi, non è animata dal messianismo degli attuali leader che vorrebbero annettere la Cisgiordania in nome di un diritto di proprietà che deriverebbe dalla Bibbia.
Oggi queste due facce di Israele si scontrano, con visioni contrapposte del futuro. La polarizzazione è sempre esistita, ma mai prima d’ora l’Israele ideologico dei coloni e dei religiosi aveva dettato l’agenda del paese in modo così netto, tentando di imporla al resto della popolazione e ai palestinesi che vivono sotto il controllo israeliano.
Questo spiega le reazioni senza precedenti. I riservisti dell’unità d’élite dell’aeronautica minacciano di non volare più se le riforme saranno approvate. Fatto ancora più simbolico, i membri del commando israeliano che aveva liberato gli ostaggi del volo Air France dirottato in Uganda nel 1976 hanno scritto a Netanyahu per prendere le distanze dal suo operato. Il loro comandante, morto nell’operazione, era il fratello del primo ministro.
Nell’aria si respira un clima da guerra civile o comunque da scisma profondo nella società israeliana. Se Netanyahu non farà un passo indietro, questa crepa diventerà una frattura, come dimostra l’incomprensione che la crisi suscita negli ebrei statunitensi, a lungo un pilastro di Israele, ma anche in Francia, dove il 9 marzo Le Monde ha pubblicato un appello firmato da numerosi esponenti di spicco del mondo ebraico nazionale e intitolato “In Israele la democrazia è in pericolo”.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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Delle proteste in Israele si è occupato il podcast di Internazionale Il Mondo nella puntata del 9 marzo.
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