In questi giorni la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen e il suo predecessore Ma Ying-jeou, del partito di opposizione Kuomintang, viaggiano in direzioni opposte.

Tsai arriverà il 29 marzo negli Stati Uniti, per quella che non può essere una visita ufficiale considerando che Taiwan non è un paese riconosciuto da Washington. La presidente farà scalo nel paese nel corso di un viaggio verso l’America Centrale, un artificio che le permetterà di compiere il gesto simbolico di mettere piede a New York e in California.

L’ex presidente Ma è arrivato il 28 marzo a Shanghai, per una visita di dodici giorni su invito delle autorità cinesi, in un momento segnato dalle forti tensioni tra Pechino e gli Stati Uniti, soprattutto in merito al destino di Taiwan.

In cerca di appoggio
Difficile trovare qualcosa di più contraddittorio di questi due viaggi, che hanno il merito di illustrare la battaglia politica decisiva che si annuncia nel futuro prossimo. Nel gennaio 2024 i taiwanesi andranno alle urne per uno scrutinio legislativo e presidenziale che potrebbe determinare l’atteggiamento della Cina nei confronti dell’isola, rivendicata da Pechino anche con la minaccia di un intervento militare.

Tsai Ing-wen, presidente di Taiwan dal 2016, appartiene al Partito democratico progressista (Dpp), una formazione politica che affonda le sue radici nell’indipendentismo anche se oggi si guarda bene dal pronunciare questa parola tabù. La presidente incarna la resistenza di Taiwan davanti alle ambizioni cinesi, e negli Stati Uniti cercherà l’appoggio di cui l’isola ha bisogno.

Oggi il Kuomintang è favorevole alla riunificazione con la Cina

Nel corso della sua visita, Tsai incontrerà Kevin McCarthy, il repubblicano portavoce della camera dei rappresentanti e successore di Nancy Pelosi. Di sicuro ricorderete la reazione di Pechino quando Pelosi aveva visitato Taipei, la scorsa estate: quattro giorni di blocco militare dell’isola da parte dell’esercito cinese, una risposta senza precedenti. Pechino ha già protestato per l’incontro tra Tsai e McCarthy.

Ma Ying-jeou, invece, fa parte del Kuomintang, l’ex partito nazionalista del generalissimo Chiang Kai-shek, il rivale di Mao che si rifugiò a Taiwan dopo la sconfitta del 1949. Oggi il Kuomintang è favorevole alla riunificazione con la Cina, anche se in una prima fase si accontenterebbe di un miglioramento delle relazioni con il continente.

È tra queste due posizioni che i 24 milioni di taiwanesi dovranno scegliere l’anno prossimo, in un clima che promette di essere piuttosto agitato.

La Cina sa che l’evoluzione dell’opinione pubblica taiwanese le è sfavorevole. I giovani, in particolare, sono legati al sistema democratico e alle libertà garantite sull’isola, e temono che in caso di un assorbimento da parte della Cina continentale farebbero la fine di Hong Kong nel 2019, con una “normalizzazione” brutale.

Il Kuomintang può ancora sperare di vincere alcune elezioni locali, come accaduto nel 2022, ma parte in svantaggio alle elezioni nazionali a causa della sua vicinanza con Pechino, ribadita dalla visita dell’ex presidente. La Cina, dal canto suo, non ha rinunciato al tentativo di forzare una vittoria del Kuomintang attraverso un mix di minacce di guerra in caso di vittoria del Dpp, promesse di legami economici fruttuosi e metodi discutibili di destabilizzazione e pressione. I taiwanesi si preparano al peggio in vista dello scrutinio.

Il viaggio di Tsai Ing-wen a New York e quello di Ma Ying-jeou a Pechino potrebbero essere la prova generale di una battaglia decisiva alle porte.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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