Volodymyr Zelenskyj e Vladimir Putin non sono mai stati così vicini l’uno all’altro dall’inizio dell’invasione. Parlo in senso strettamente geografico: i due presidenti-nemici, infatti, hanno visitato la linea del fronte e lo hanno fatto sapere nella giornata del 18 aprile.
Per Putin, al contrario di Zelenzkyj, si tratta della prima volta. Le due visite sono state evidentemente studiate, dunque è giusto soffermarvisi. Qual è il messaggio che possiamo trarne, rispetto sia all’azione militare sia alle ultime ipotesi di un negoziato?
I due schieramenti perseguono obiettivi diversi. Il presidente ucraino prepara la sua controffensiva di primavera, annunciata in anticipo per forzare la consegna di armi occidentali. I carri armati sono già arrivati, e alcuni paesi dell’Europa dell’est hanno fornito perfino aerei di fabbricazione sovietica.
Messaggi complessi
La recente pubblicazione di documenti riservati del Pentagono ha svelato una data ipotetica per l’attacco, il 30 aprile (che ora, chiaramente, è diventata improbabile), ma anche i dubbi sulla capacità degli ucraini di sbaragliare le difese russe, fortemente consolidate negli ultimi mesi lungo gli oltre mille chilometri del fronte.
Il messaggio di Putin, invece, è molto più complesso. Visitando prima la regione di Cherson, nel sud dei territori annessi, e poi Luhansk, a nord, il presidente russo vuole far presente che Mosca non intende rinunciare alle sue conquiste dell’anno scorso, anche se non ne ha il pieno controllo.
Mosca potrebbe accontentarsi dei territori conquistati e cessare le ostilità. Ma per l’Ucraina è impensabile
La premessa è importante, perché è conforme all’atteggiamento russo rispetto a eventuali negoziati: il Cremlino è disponibile a trattare, ma solo sulla base delle conquiste territoriali già avvenute, che non considera negoziabili.
Due giorni prima della visita di Putin, Evgenij Prigožin (capo della milizia Wagner, che ha condotto buona parte dei combattimenti e ha subìto forti perdite nella battaglia di Bachmut) ha rilasciato una dichiarazione significativa, sottolineando la necessità “di porre fine all’operazione militare speciale” annunciando che la Russia ha raggiunto i suoi obiettivi. A quanto pare, secondo Prigožin, Mosca potrebbe accontentarsi dei territori conquistati e interrompere le ostilità.
Questa apertura favorisce davvero un negoziato? La risposta è no. Per l’Ucraina, che non intende sacrificare nemmeno un millimetro di territorio dopo tutto quello che ha subìto nell’ultimo anno, si tratta di uno scenario evidentemente inaccettabile.
In quest’ottica emerge tutta l’ambiguità delle ipotesi di negoziato e mediazione avanzate dalla Cina, a cui si è aggiunto il Brasile di Lula. A questo proposito, vale la pena notare che il 18 aprile il capo della diplomazia russa Sergej Lavrov si trovava in Brasile, dove ha elogiato gli sforzi diplomatici del governo.
L’ambiguità risiede nel fatto che presentando un’offerta di mediazione in un momento in cui la Russia controlla ancora i territori occupati, si insinua che l’Ucraina sia l’ostacolo sulla via della pace perché non intende trattare prima di aver provato a invertire i rapporti di forza. Agli occhi dei paesi del sud la responsabilità della guerra ricadrebbe sull’Ucraina e sugli occidentali che l’hanno sostenuta.
La conclusione che possiamo trarre da tutto questo è che la guerra non è ancora vicina alla sua conclusione, perché chi parla di negoziati non ha in mano alcun elemento che possa innescare una reale trattativa. La presenza di Zelenskyj e Putin sui due lati della linea del fronte annuncia piuttosto un inasprimento dello scontro nella prossime settimane.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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