Nel 2005 a Narendra Modi era stato rifiutato un visto d’ingresso negli Stati Uniti. All’epoca era il primo ministro del Gujarat, uno stato indiano teatro di violenze enormi contro i musulmani per le quali era stato accusato di aver mantenuto un atteggiamento di complicità. Diciott’anni dopo, Modi è l’onnipotente primo ministro dell’India, perciò ha diritto a una visita di stato a Washington con tanto di tappeto rosso, festeggiamenti vari e il raro privilegio di poter parlare davanti alle due camere del congresso.

Il mondo è cambiato parecchio da quando Modi era solo il chief minister del Gujarat. L’India è diventata il paese più popoloso del pianeta e soprattutto si presenta come alternativa strategica alla Cina. Evidentemente questo contesto geopolitico giustifica l’attenzione particolare riservata alla visita del primo ministro, che fra tre settimane sarà anche l’invitato d’onore alla festa nazionale francese del 14 luglio, a Parigi. I dibattiti che circondano la sua visita negli Stati Uniti si ripeteranno immancabilmente in Francia.

Chiudere un occhio
Come si fa a trattare con un paese così sconfinato, dal passato così ricco, dalle risorse illimitate e che tra l’altro vanta un’attraente posizione geografica dal punto di vista strategico, ma che presenta anche le caratteristiche di un nazionalismo intollerante e di un populismo pericoloso? Sia gli Stati Uniti sia la Francia hanno risolto il dilemma chiudendo un occhio. È così che funziona la realpolitik.

L’India, in ogni caso, non è diventata un’alleata dell’occidente. La guerra in Ucraina ha rivelato il posizionamento a geometria variabile di New Delhi, che non ha condannato l’invasione russa (perché Mosca equipaggia da tempo l’esercito indiano), ha incrementato gli acquisti di idrocarburi russi (a prezzi scontati) e in questo modo ha ridotto l’impatto delle sanzioni occidentali.

L’India non sceglie uno schieramento ma cerca di costruire la propria autonomia strategica perseguendo i propri interessi

Al contempo, però, l’India vive una rivalità intensa con la Cina – tra i due paesi è in corso un conflitto alla frontiera che non si è ancora risolto – e attira una parte degli investimenti occidentali per tentare di arginare la minaccia cinese. La Apple, per fare un esempio, ha scelto l’India come seconda base per la fabbricazione di iPhone dopo la Cina, in modo da non dipendere da un solo paese. Il ministro degli esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar ha espresso l’idea di un mondo multipolare composto da “fratelli nemici”. Questo gioco di parole riassume perfettamente la diplomazia opportunistica dell’India, che non sceglie uno schieramento ma cerca di costruire la propria autonomia strategica perseguendo i propri interessi.

Eppure l’accoglienza riservata a Narendra Modi da Joe Biden è quella di un alleato, cosa che l’India evidentemente non è. Lo stesso discorso vale per le vendite di armi che saranno concordate, a cominciare dai droni-spia, raramente venduti dagli americani. Nello scontro con la Cina, prioritario per Washington, l’India è una scelta obbligata, dunque bisogna ignorare tutto ciò che desta preoccupazioni.

Con Parigi il legame è ancora più stretto. La Francia, infatti, offre il vantaggio di essere un paese occidentale che però non è necessariamente allineato con Washington. Ecco spiegati gli scambi militari, l’acquisto di aerei Rafael o la cooperazione nel campo del nucleare civile.

Dunque, bisognerebbe tacere sulla deriva autoritaria del nazionalismo indù di Modi? In linea di principio, no. Ma a Washington rimproverano Joe Biden di cercare la quadratura del cerchio per non offendere il suo ospite, e lo stesso approccio lo adotterà Emmanuel Macron il mese prossimo. È evidente che viviamo in un’epoca segnata dalla realpolitik.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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