Chi crede ancora che sia possibile una soluzione militare tra israeliani e palestinesi? Nessuno che abbia una minima conoscenza della situazione potrebbe mai pensarlo. Eppure, ancora una volta, è il linguaggio delle armi a imporsi in un contesto in cui non emerge alcuna soluzione politica possibile o ipotizzabile.

Questa constatazione era valida cinquant’anni fa e lo è ancora oggi, mentre una vera e propria operazione di guerra viene condotta dall’esercito israeliano a Jenin, nel nord della Cisgiordania. Nel frattempo, a Tel Aviv, gli islamisti di Hamas hanno rivendicato un attentato.

Era da vent’anni che non assistevamo a scene del genere: raid aerei, blindati e centinaia di soldati all’assalto di una popolosa città palestinese. Il bilancio è di una decina di morti più un centinaio di feriti, oltre ad arresti di massa e a tremila persone costrette a fuggire dai combattimenti e ad abbandonare le loro case nel campo profughi di Jenin. Doppiamente rifugiati, senza futuro.

Miscela esplosiva
A questa guerriglia urbana ha risposto l’auto che si è lanciata contro la folla a Tel Aviv, ferendo nove persone. L’autista, palestinese, è stato ucciso da un passante. È un eterno circolo vizioso di violenza e vendetta, assolutamente familiare nel paese della legge del taglione.

Questa escalation di violenza è dovuta a una miscela esplosiva ben nota e fatta di esasperazione accumulata, di una militanza radicale diffusa tra una nuova generazione di palestinesi, di una colonizzazione senza ostacoli e di una politica israeliana ormai dominata dalla retorica incendiaria.

Una violenza del genere non si vedeva da almeno vent’anni, mentre i discorsi sono sempre gli stessi

Dall’inizio del 2022 si moltiplicano incidenti di ogni tipo: violenza dei coloni israeliani che prende il carattere di pogrom antipalestinesi, operazioni militari israeliane, terrorismo antisraeliano. I morti si accumulano a un ritmo che non avevamo visto dai tempi delle due intifada, negli anni ottanta e duemila.

I discorsi, invece, sono sempre gli stessi. Quante volte un primo ministro israeliano ha dichiarato, come ha fatto Benjamin Netanyahu il 4 luglio, che “la lotta contro il terrorismo a Jenin andrà avanti fino a quando la minaccia sarà eliminata”?

Se la violenza potesse essere cancellata con la forza, allora Israele, che può contare su una smisurata superiorità militare, lo avrebbe fatto da decenni e invece sono passati 56 anni dall’occupazione israeliana dei territori palestinesi al termine della guerra del 1967. Lo stesso discorso vale sul fronte palestinese.

In questa impasse pericolosa lo status quo è sempre più insostenibile. La situazione sta degenerando perché il movimento dei coloni, che ormai è rappresentato all’interno del governo Netanyahu, porta avanti il suo programma.

Qualche giorno fa il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, uno dei leader dell’estrema destra, ha sostenuto un insediamento illegale costruito su terreni dei palestinesi e ha manifestato il desiderio che altre colonie simili possano sorgere in futuro su tutte le colline della Cisgiordania, chiedendo l’avvio di un’operazione militare antiterrorismo che provocherebbe “centinaia e se necessario anche migliaia di morti”. Parole sue.

Sono dichiarazioni destinate ad alimentare lo scontro e che il primo ministro Netanyahu ha deciso di tollerare. “Bibi”, infatti, non può governare senza l’estrema destra. I sogni di Ben Gvir sono diventati realtà con la vasta operazione condotta a Jenin. Ma intanto israeliani e palestinesi sprofondano sempre di più nel circolo vizioso della violenza.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

  • Jenin sotto attacco. Nella nuova puntata di Il Mondo Francesca Gnetti commenta l’attacco sferrato dall’esercito israeliano sulla città della Cisgiordania.

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