È uno scenario alla John le Carré: cinque prigionieri da un lato, cinque dall’altro, portati nello stesso luogo e nello stesso momento per uno scambio, mentre sei miliardi di dollari erano versati su alcuni conti bancari. La differenza è che nei romanzi gli scambi di prigionieri durante la guerra fredda avvenivano a Berlino, in Germania, mentre in questo caso tutto è successo a Doha, in Qatar, e i prigionieri sono statunitensi e iraniani.
L’accordo ha fatto scalpore, prima di tutto perché era da tempo che non arrivavano notizie positive sui rapporti tra Washington e Teheran. Inoltre, è lecito sperare che ci saranno ripercussioni nella trattativa sul nucleare iraniano, al momento bloccata.
Ma la vicenda è anche controversa. Negli Stati Uniti c’è chi non ha gradito affatto e rimprovera all’amministrazione Biden di aver pagato un riscatto, mettendo in pericolo tutti gli americani.
Intesa ancora lontana
Il lato finanziario della questione è abbastanza insolito. Quelli trasferiti, infatti, non sono soldi statunitensi, ma il frutto della vendita di petrolio iraniano alla Corea del Sud, che finora non era riuscita a ripagarlo a causa delle sanzioni. I sei miliardi di dollari sono stati versati su conti svizzeri e qatarioti. Teheran potrà utilizzarli solo per comprare beni di prima necessità, come prodotti alimentari e medicine, ma resta il fatto che l’operazione suscita la rabbia dei repubblicani.
Washington aveva posto la liberazione dei cittadini statunitensi come condizione imprescindibile per qualsiasi accordo sul nucleare. Dunque possiamo dire che un ostacolo è stato eliminato, ma questo non significa che l’intesa sia a portata di mano. L’ottimismo mostrato dai negoziatori dopo l’elezione di Biden è sparito da tempo, mentre il contesto internazionale è cambiato profondamente: la fornitura di droni iraniani alla Russia per bombardare l’Ucraina ha distrutto qualsiasi residuo di buona volontà da parte occidentale.
La settimana scorsa Germania, Francia e Regno Unito, ovvero tre dei firmatari dell’accordo sul nucleare del 2015, hanno fatto sapere che non cancelleranno le sanzioni contro Teheran, in scadenza il 18 ottobre. Gli europei sottolineano che l’Iran sta infrangendo i termini previsti e dunque le misure resteranno in vigore.
Al momento una nuova intesa sembra molto improbabile, soprattutto considerando che manca appena un anno alle elezioni presidenziali statunitensi e a un possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Teheran sa perfettamente che Trump, una volta eletto, annullerebbe qualsiasi accordo, come ha già fatto nel 2018.
Eppure lo scambio di prigionieri del 18 settembre dimostra che delle strade parallele sono ancora percorribili. Nonostante le apparenze, i canali diplomatici non si chiudono mai del tutto. In questo caso il pensiero va ai sei francesi e al funzionario svedese dell’Unione europea ancora detenuti in Iran.
C’è però una seconda grande critica rivolta allo scambio dei prigionieri avvenuto in questi giorni, e riguarda la tempistica: è avvenuto a 48 ore dall’anniversario della morte di Mahsa Jina Amini, che era stata arrestata dalla polizia religiosa con l’accusa di aver indossato il velo in modo scorretto.
Ancora una volta emerge una lontananza enorme tra la diplomazia internazionale e le manifestazioni del sentimento popolare. Il fatto che il regime dei mullah recuperi miliardi di dollari proprio nel momento in cui gli iraniani pagano il prezzo della loro richiesta di libertà dà un gusto amaro all’operazione di scambio di prigionieri. Ma è così che funziona la realpolitik.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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